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Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha alzato un nuovo allarme nei confronti dell’Iran: ci sono due basi, una nei pressi di Chabahar e l’altra nell’isola di Qeshm, dove la Repubblica islamica ha schierato droni da attacco Shaded. La notizia non sarebbe eccezionale se non fosse che manda un messaggio di vari livelli.

Innanzitutto, quelle basi si trovano nel sud del Paese e secondo gli israeliani sono una minaccia per la sicurezza marittima nel Golfo, dove da anni si verificano sabotaggi ed episodi sospetti frutto di una guerra ombra tra Pasdaran, israeliani e americani — e dove l’Italia è parte della missione europea “Emasoh” per il controllo di quelle importantissime rotte commerciali da cui passa la maggioranza dell’oil&gas mondiale. Israele usa l’argomento con un riferimento recente: l’attacco alla Mercer Street. La nave operata da una compagnia israeliana fu colpita da due esplosioni a luglio in cui morirono due persone (le prime vittime di un “incidente” del genere). Secondo le ricostruzioni era stata attaccata da droni, per gli Usa i responsabili erano gli iraniani anche se Teheran ha sempre negato.

Quegli stessi droni avrebbero attaccato recentemente una base statunitense in Siria, e anche in quel caso il Pentagono ha addossato la responsabilità su Teheran, nonostante l’azione con ogni probabilità fosse stata condotta da una delle milizie sciite collegate ai Pasdaran — gruppi che si muovono tra Siria, Iraq e Libano. Quando Gantz parla pensa anche a questo, milizie comprese. Gli Stati Uniti e gli alleati regionali in Medio Oriente sono preoccupati che armi più tecnologiche come i droni vengano passate dai Pasdaran ai gruppi armati collegati. Questo comporterebbe un aumento quasi esponenziale del problema, sia perché la minaccia arriverebbe da più parti, sia perché quelle milizie seguono anche agende personali e potrebbero agire senza indicazioni e consenso iraniano, in modo incontrollato.

Dalle rilevazioni tecniche del ministro iraniano — che ha parlato anche di questi spostamenti di armi — passa anche un messaggio di carattere politico strategico indirizzato innanzitutto ai partner del Golfo, con cui dagli Accordi di Abramo si sta passando a dare sostanze a un’alleanza per la condivisione di intelligence (intanto con Emirati Arabi e Bahrein). Qui ci sono altri due elementi. Il primo, alzare l’attenzione sulla persistenza della minaccia serve a pressare Abu Dhabi, che più volte ha preso posizioni meno dure con l’Iran negli ultimi anni (vedere anche le dinamiche siriane).

Il secondo si rivolge agli Stati Uniti, impegnati in questo momento a ricomporre l’accordo sul nucleare iraniano Jcpoa. Il negoziato è anche una guerra di nervi, in cui si usano anche colpi bassi come le spifferate ai media; per esempio quella secondo cui funzionari statunitensi avrebbero avvertito le controparti israeliane che i ripetuti attacchi agli impianti nucleari iraniani sono in definitiva controproducenti (i funzionari israeliani, stando al New York Times che ha dato l’informazione, hanno affermato di non avere intenzione di mollare). Le dichiarazioni sui droni servono anche a ricordare che oltre al nucleare ci sono altri problemi da affrontare con l’Iran.

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