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Gli Emirati Arabi Uniti hanno sospeso un accordo multimiliardario per acquistare jet da combattimento di ultima generazione F-35, prodotti negli Stati Uniti, in un segno della crescente frustrazione di Abu Dhabi con i tentativi di Washington di limitare le vendite di tecnologia cinese allo stato del Golfo.

“Gli Emirati Arabi Uniti hanno informato gli Stati Uniti che sospenderanno le discussioni per acquisire l’F-35”, ha detto un funzionario emiratino alla CNN corroborando uno scoop del Wall Street Journal uscito poche ore prima: “I requisiti tecnici, le restrizioni operative sovrane e l’analisi costi/benefici hanno portato alla rivalutazione”. Queste dichiarazioni sono accompagnate da frasi rassicuranti come “gli Stati Uniti rimangono il principale fornitore di sicurezza per gli Emirati”, ma si portano dietro una problematica profonda: la Cina è diventato ormai un competitor di ampia gamma al punto che alcuni alleati americani messi davanti alla scelta binaria – o Washington o Pechino – potrebbero trovarsi in difficoltà.

“La partnership degli Stati Uniti con gli Emirati Arabi Uniti è più strategica e più complessa di qualsiasi vendita di armi”, ha detto in conferenza stampa il portavoce del dipartimento di Stato: “Insisteremo sempre, come una questione di requisiti statutari e di policy, su una varietà di requisiti che deve rispettare l’utente finale. È una cosa normale”. Ancora: “Questi requisiti dell’utente finale e la protezione delle attrezzature di difesa degli Stati Uniti sono universali, non negoziabili e non specifici degli Emirati Arabi Uniti”.

Gli F-35 sono più di un jet: come spiegava su queste colonne il generale Vincenzo Camporini: “Non è un aeroplano che ne rimpiazza uno vecchio, ma è una cosa completamente nuova. È il nodo non-eliminabile di una rete informatica che vola. E in questo senso ha delle capacità che consentono un salto quantico nella qualità della difesa”. Il già capo di stato dell’Aeronautica interveniva a proposito dell’annuncio della trattativa, quando – nell’agosto 2020 – gli israeliani avevano storto un po’ il naso a una commessa di così ampio valore strategico a favore di Abu Dhabi.

Era l’effetto immediato degli Accordi di Abramo, che oltre alle specifiche normalizzazioni segnavano un nuovo livello di cooperazione tra Stati Uniti ed Emirati, mentre Gerusalemme chiedeva rassicurazioni (poi arrivate in varie forme) sul restare primus inter pares tra gli alleati americani in Medio Oriente. Dalla vendita degli F-35 passa molto delle relazioni internazionali statunitensi: sono la Via della Seta americana, e già gli Stati Uniti avevano escluso la Turchia a seguito dell’acquisto dalla Russia dei sistemi di difesa aerea S-400.

In quel caso il timore tecnico era molto simile a questo che riguarda gli emiratini: certi sistemi potrebbero permettere ai rivali di spiare quel prodigio di tecnologia che porta l’America e alcuni partner privilegiati in vantaggio dal punto di vista militare e dunque strategico. In più, Washington trasmette con azioni questi contenuti: inconciliabile per partner e alleati aprire mercati militari con paesi rivali proprio mentre si gode del privilegio di far parte della catena F-35.

Finora tanto era bastato. Ankara si trova in difficoltà nelle relazioni con gli Usa e in generale con l’Occidente, subisce l’esclusione dal programma (in cui forse proverà a rientrare in qualche modo) anche se cerca di sfruttarla propagandisticamente, rivendicando sovranità assoluta nelle scelte (è parte delle mire di grandezza che il presidente ha in mente per il Paese da tempo). Abu Dhabi invece sembra scegliere. Con la questione emiratini la freccia si è invertita.

L’uscita sembra una libera scelta, una decisione di interesse che si porta dietro una critica a Washington per l’eccessività della linea anti-cinese. Scelta che arriva per altro insieme ad alcuni passaggi: la storica visita del primo ministro israeliano ad Abu Dhabi; l’incontro sempre nella capitale emiratina tra l’erede al trono locale e quello saudita per riallineare i due regni motori del Golfo; l’acquisto di 80 caccia Rafale da Parigi, annunciato dopo la visita del presidente francese (sempre nella capitale emiratina); e se vogliamo in mezzo al concretizzarsi della nuova linea di pensiero emiratino esplosa attorno all’Expo di Dubai.

Pechino non ne sarà dispiaciuta di essere la ragione di questo genere di trambusto. Come dimostrato dalla visita dell’erede Mohammed bin Zayed a Pechino nel luglio 2019, le relazioni tra i due Paesi sono piuttosto vicine, e sono parte centrale dello schema strutturale con cui la Cina si muove in Medio Oriente.

L’amministrazione statunitense ha ripetutamente spinto gli Emirati a eliminare l’esposizione alla Cina, che si snoda su questioni di carattere più economico-commerciale, ma che tocca anche elementi considerati strategici come le telecomunicazioni. Nello specifico, Abu Dhabi ha affidato molto della sua rete alla Huawei Technologies Co. e questo per gli Usa rappresenta un problema perché può diventare un rischio per la sicurezza dei suoi sistemi di armamenti (e non solo), in quanto le intelligence americane ritengono che la compagnia di Shenzen sia collegata all’Esercito popolare cinese e che operi anche in attività di spionaggio per conto del governo di Pechino. Accuse sempre negate da Huawei.

“L’F-35 è il gioiello della corona degli Stati Uniti, della nostra forza aerea e quindi dobbiamo essere in grado di proteggere la sicurezza tecnologica per tutti i nostri partner”, ha detto il vicesegretario di Stato americano per la sicurezza regionale Mira Resnick alla CNN la scorsa settimana, rispondendo a una domanda propio sul se gli Emirati Arabi Uniti avrebbero dovuto scegliere tra Huawei e gli F-35. Resnick, che a metà novembre era negli Emirati (parte di una corposa delegazione statunitense che viaggiava contemporaneamente lungo tutta l’area MENA anche per parlare di Cina), aveva già anticipato che con Abu Dhabi erano in corso conversazioni e che gli Emirati si sarebbero trovati davanti a questioni di scelte.

“Ciò che ci preoccupa è questa linea sottile tra la competizione acuta (tra Cina e Stati Uniti) e una nuova guerra fredda”, aveva detto in quegli stessi giorni Anwar Gargash, consigliere diplomatico della leadership degli Emirati Arabi Uniti. Gargash, il più influente emiratino a parlare pubblicamente di questioni così delicate, era intervenuto all’Arab Gulf States Institute di Washington: “Penso che noi, come piccolo stato, saremo influenzati negativamente da questo tipo di scontro, e non avremo la capacità in alcun modo di influenzare davvero, anche positivamente, questa competizione”.

Il diplomatico emiratino in quella stessa occasione aveva anche confermato le notizie secondo cui Abu Dhabi aveva ordinato la chiusura di un progetto cinese per i sospetti americani su possibili usi militari del sito, nonostante gli emiratini non fossero d’accordo con quella caratterizzazioni. “Il punto di vista degli Emirati – ha detto Gargash – era che quelle strutture in nessun modo potevano essere interpretate come strutture militari, tuttavia gli Stati Uniti avevano le loro preoccupazioni e noi abbiamo preso in considerazione queste preoccupazioni americane e abbiamo fermato i lavori”.

“Tu hai avuto le preoccupazioni del tuo principale alleato, e penso che sarebbe sciocco per te non affrontare quelle sue preoccupazioni”, diceva Gargash. Di questo discuterà una delegazione del Pentagono che da oggi, mercoledì 15 dicembre, sarà in visita ad Abu Dhabi. Il portavoce del dipartimento di Stato che ha parlato del viaggio ha detto che il tema non sarà la vendita degli F-35, ma la cooperazione su difesa e sicurezza, solo che è difficile pensare che quella cooperazione possa procedere sugli stessi ritmi senza la commessa degli F-35 (che per altro si portava dietro anche quella di droni Reaper armati e di bombe di vario genere).

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