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La tematica della valorizzazione economica del dato personale è al centro del dibattito ormai da qualche anno, sebbene di recente abbia conosciuto un rinnovato vigore per almeno due circostanze.

La prima è rappresentata dall’approssimarsi della fase di recepimento della direttiva comunitaria 770/2019, con cui, per la prima volta, si dà atto che l’accesso a contenuti o servizi digitali può avvenire non soltanto dietro il pagamento di un prezzo, ma anche mediante la fornitura dei dati personali del consumatore: dunque, oltre al riconoscimento della data protection, quale diritto fondamentale, occorre garantire ai consumatori specifici rimedi contrattuali nell’ambito di tali nuovi modelli commerciali.

La seconda è costituita da una crescente insofferenza da parte delle istituzioni comunitarie e di numerosi stakeholder verso il cosiddetto targeted advertising, ossia quella pubblicità personalizzata che l’utente riceve sulla base dei dati che ha condiviso sui social network, o navigando in rete o sulla base degli acquisti che ha effettuato in precedenza.

Sebbene questa tipologia di pubblicità abbia costituto la principale leva di crescita dei grandi colossi della Rete e abbia garantito, al contempo, un sempre maggior numero di servizi “gratuiti” (ma che in realtà l’utente paga, più o meno consapevolmente, attraverso i suoi dati personali) e un’esperienza di navigazione maggiormente in linea con le proprie esigenze, ciò ha anche innescato dinamiche anticoncorrenziali e spinte monopolistiche che appaiono incompatibili non solo con la regolazione europea in materia, ma anche con quell’idea di mercato aperto e concorrenziale che da sempre anima l’Unione europea.

Non a caso la recente iniziativa “Tracking-free ads coaltion” vanta il sostegno di politici, organizzazioni della società civile e dei consumatori, parti significative dell’industria, compresa l’editoria tradizionale.

Se da un lato, allora, c’è un riconoscimento, anche normativo, della nuova funzione del dato personale quale controprestazione per la fornitura di contenuti e servizi digitali, dall’altro si assiste ad una spinta di segno opposto, tesa a limitare lo sfruttamento dei medesimi dati da parte di quegli operatori che su di essi hanno costruito la propria fortuna.

Come uscirne? Responsabilizzando e potenziando la figura del consumatore attraverso quello che potremmo richiamare il “Reddito da profilazione”. Già oggi il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali prevede una serie di obblighi informativi a favore dei soggetti i cui dati sono oggetto di trattamento. Perché non inserire una nuova prescrizione, in forza della quale, laddove tali dati sono rilevanti ai fini di una transazione economica, il loro prezzo deve essere comunicato al consumatore?

Perché non tramutare quel valore ipotetico in pagamento concreto per il soggetto che, consapevolmente, scelga di conferire i propri dati a questa o a quella piattaforma? Perché, in buona sostanza, essendo noi utenti i fornitori della materia prima con la quale la cosiddetta data economy funziona, non possiamo essere anche destinatari di una parte dei dividendi generati da quel sistema economico?

Il reddito da profilazione potrebbe così essere il primo di una serie di iniziative volte a ribilanciare, attraverso una sorta di give back digitale da parte delle big tech, un sistema che appare oggi fortemente squilibrato e rischia di esplodere, portando via anche quanto di buono ha offerto finora.

Cosa è il Reddito da profilazione e perché potrebbe aiutare i consumatori

Di Marco Scialdone e Marco Pierani

Marco Scialdone (avvocato e docente all’Università Europea di Roma) e Marco Pierani (avvocato e direttore public affairs di Euroconsumers)  propongono un “give back digitale” da parte dei Big Tech, per riequilibrare un sistema che rischia di esplodere, portando via anche quanto di buono ha offerto finora

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