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Una scialuppa di salvataggio. La telefonata tra Joe Biden e Xi Jinping, tre ore e mezzo in video-conferenza, è stata soprattutto questo. Dopo mesi di silenzi e tensioni sotterranee, i due leader, conoscenti di lunga data, anzi “amici”, ha detto Xi, hanno riaperto un canale. Quello che, almeno nelle intenzioni, serve a scongiurare un incidente o, peggio, una guerra.

Non è più un caso di scuola: i raid dei caccia cinesi sui cieli di Taiwan e gli scontri sempre più frequenti nell’Indo-Pacifico hanno drammaticamente alzato l’asticella del rischio. La verità però, spiega a Formiche.net Zack Cooper, esperto di Cina e ricercatore dell’American for Enterprise Institute (Aei), è che uno scontro diretto, oggi, non conviene a nessuno. “Per questo era così necessaria una riunione fra i due leader. Per vedersi in volto, riconoscersi, parlarsi. Mettere fine a un lungo periodo di incomprensioni pericolose. Non è un caso che non ci sia stato un comunicato finale, che non siano entrati nei dettagli dei dossier, tranne in un caso”.

Di Taiwan si è parlato, eccome. E tuttavia dal lungo confronto lo stallo è uscito intatto: nessun passo indietro, da entrambe le parti. “In questo momento, la guerra a Taiwan è la prima preoccupazione per gli Stati Uniti – dice Cooper – un passo falso può accelerare i tempi di un’annessione cinese, per questo la Casa Bianca lavora da mesi per trovare un meccanismo di de-escalation”. Per la Cina è solo questione di tempo. Quanto, non è dato saperlo.

Non sarà un processo immediato, spiega l’esperto americano. “Le chances di un’invasione militare nel 2022 sono molto basse. Xi deve fare i conti con il Congresso di autunno che lo rieleggerà segretario. A questo si aggiunge la crisi finanziaria e la chiusura del Paese per gestire la pandemia. Un conflitto militare non è escluso, ma è improbabile”. E poco importa che la propaganda dei media di Stato cinesi abbia dipinto il video-incontro come un successo unilaterale, indiscusso del leader Xi. Biden, dice Cooper, ha raggiunto il suo obiettivo. Incanalare cioè uno scontro su più livelli – militare, commerciale, cyber – all’interno di una competizione gestita, regolata.

Niente a che fare con il predecessore. Donald Trump ha sempre rivendicato il talento del “dealer”, dell’accordo strappato all’ultimo minuto, col fiato sospeso. Per Biden invece la diplomazia è uno sport di gruppo. “Questa amministrazione cerca di contenere la Cina con un sistema di alleanze e partnership, non solo in Asia. Se guardiamo ai fondamentali, si sta muovendo più in continuità con Trump di quanto non avessero previsto gli esperti, con un pressing economico continuo. Ma l’approccio è molto diverso. Biden non attaccherebbe mai la Cina in pubblico come ha fatto Trump, sono dettagli che fanno la differenza”.

Del metodo Biden Aukus – il patto militare anti-cinese con Australia e Regno Unito nell’Indo-Pacifico – è l’esempio più eloquente. Che però, almeno finora, si è trasformato in un boomerang per la Casa Bianca, arrivata a un passo dallo strappo con l’alleato francese, infuriato per una commessa da 56 miliardi saltata a causa del patto. “Aukus è stata la prima puntata della nuova strategia americana, ha sancito lo spostamento dei riflettori dall’Asia centrale all’Indo-Pacifico. Senza il sostegno degli alleati europei, alcuni già impegnati nella regione, non andrà lontano. Per questo ricucire con Macron è una priorità per Biden”.

Il secondo passo è coinvolgere i principali alleati europei, tagliati fuori dall’iniziativa anglosassone, nell’operazione di contenimento cinese. “Questa amministrazione deve ricordare all’Europa che Aukus non è un modo per voltarle le spalle. Che gli alleati europei possono e devono fare la loro parte”.

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