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Nella corsa verso la neutralità carbonica entro il 2050 la questione climatica si scontra ineluttabilmente con la fattibilità concreta ed economica della svolta verde. Bruxelles si sta applicando per riportare in Europa alcuni anelli delle catene di produzione e per evitare il dumping, climatico o economico che sia. Tra le modalità allo studio ci sono strumenti anti-sovvenzioni, difese commerciali rafforzate e una proposta di meccanismo di due diligence che mira a scoprire gli abusi lavorativi e ambientali nelle catene di fornitura.

In controluce, la Cina, causa velata ma conclamata di questa direzione. Infatti lo sforzo europeo di “ripulire” i propri partner commerciali è fatto in concomitanza con la controparte americana nell’ambito del Ttc, il consiglio Ue-Usa di tecnologia e commercio per coordinare i rispettivi approcci e immaginarsi un percorso condiviso su tecnologia verde e semiconduttori.

Tuttavia entrambi sanno che al momento non può esserci una transizione ecologica senza Pechino. Per motivi di ordine pratico: basti pensare che il mercato dei pannelli fotovoltaici a basso costo dipende dal polisilicio prodotto nello Xinjiang, o che sei delle sette compagnie che producono i pannelli sono cinesi. I competitor di un tempo sono morti e sepolti da anni grazie ai prezzi cinesi ultracompetitivi, frutto anche di sovvenzioni dello Stato (sia cinese che degli Stati occidentali che hanno sussidiato questa tecnologia senza guardare alla provenienza dei pannelli).

Lo stesso problema si sta ripresentando nel comparto dei veicoli elettrici (EV), tassello-chiave della strategia europea per decarbonizzare i trasporti. I tempi immaginati alla conferenza sul clima di Glasgow – non vendere più auto a combustione interna entro il 2040, o 2035 per i Paesi leader – implicherebbero “un aumento di trenta volte della domanda annuale di batterie e un aumento sostanziale del fabbisogno di materie prime” secondo gli analisti di Benchmark Mineral Intelligence, una società di consulenza.

L’obiettivo, sottoscritto da diverse case automobilistiche europee, prevede terre rare per costruire le batterie: circa 7 milioni di tonnellate di litio, pari a 17 volte la quantità prodotta nel 2021. Discorso simile per nickel, grafite, manganese, cobalto. E occorre considerare anche che le batterie al litio servono altrove, come negli smartphone e nei computer portatili; l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) stima che la domanda di litio aumenterà di oltre quaranta volte entro il 2030.

Peccato che la produzione globale di litio sia lontanissima da reggere il passo con questa transizione verso gli EV. Già oggi la domanda cresce di tre volte rispetto all’offerta. In più servono circa sette anni per far partire una nuova miniera di litio, escludendo eventuali complicazioni ambientali e i processi di raffinamento.

Gli esperti indicano una cifra magica per la produzione di una batteria per EV, 100 dollari per kilowattora, che una volta raggiunta permetterebbe alle case di costruire auto elettriche più economiche (Tesla promette da anni una Model 2 da 25.000 dollari) e innescare l’adozione di massa. Ma la disponibilità limitata farà salire i prezzi delle batterie già dal 2022, secondo alcuni analisti, impattando i margini di profitto degli automaker; se questi dovessero passare i costi aggiuntivi al cliente, l’adozione di EV subirà un pesante rallentamento.

E perciò si torna alla Cina, ricca di terre rare, tra i maggiori produttori di batterie al litio e forte di decenni in cui ha potuto rafforzare le proprie catene di approvvigionamento nel suo ruolo di fabbrica del mondo. Dunque non sorprende che secondo GlobalData il Paese produrrà più di metà degli EV al mondo entro i prossimi cinque anni. L’analista Daniel Clarke ha detto a Forbes che Pechino dominerà il mercato delle batterie agli ioni di litio entro il 2026 con una quota prevista del 61,4% “a dispetto dei migliori sforzi degli Stati Uniti e dell’Unione europea”.

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