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La filiale afgana dello Stato islamico, nota con la sigla Iskp, potrebbe essere pronta a colpire gli Stati Uniti o altri Paesi nel giro di sei mesi. La dichiarazione del sottosegretario alla Difesa statunitense, Colin Kahl, lunedì ha gelato i membri della Commissione dei Servizi armati del Senato in cui era in audizione.

“La comunità di intelligence attualmente valuta che sia l’Iskp (acronimo di Islamic State in Khorasan Province, ndr) che Al Qaeda hanno l’intenzione di condurre operazioni esterne, anche contro gli Stati Uniti”, ha avvertito Kahl — che al Pentagono si occupa adesso di definire le policy e che nel dipartimento ha occupato altri incarichi di rilievo nelle amministrazioni precedenti (per esempio ha partecipato ai negoziati sul Nuke Deal iraniano).

“Per il momento, l’Iskp si concentra soprattutto nel creare scompiglio all’interno dell’Afghanistan”, ha spiegato Kahl, ricordando che la filiale è meno forte del cuore centrale che nel 2014 generò il Califfato dando il via a una stagione di lotta al jihadismo divisa tra la guerra in Siraq e il contrasto alle attività terroristiche — che le conquiste storiche dei baghdadisti avevano ispirato in diverse regioni del mondo, dall’Europa alla Cina, dal Nordafrica alla Russia. Il rischio è una crescita al punto da ripetersi una nuova Siria.

Con la deposizione, Kahl diventa il terzo funzionario di alto rango al Pentagono ad alzare l’attenzione sui baghdadisti afghani — e contemporaneamente a esprimere fiducia nelle valutazioni e nelle capacità dell’intelligence statunitense in Afghanistan, anche dopo che Washington ha terminato le sue operazioni militari nel Paese, in agosto. “In questo momento, la cooperazione antiterrorismo con il Pakistan è abbastanza buona”, ha aggiunto, e con quel “abbastanza” intendeva sottolineare gli aspetti impegnativi di una relazione che vede Islamabad come principale spalla americana nella lotta al jihadismo regionale, nonostante i servizi segreti locali abbiano diverse volte dimostrato di tessere rapporti ambigui con i gruppi armati radicali.

Kahl ha anche aggiunto che gli Stati Uniti stanno tenendo conversazioni con il Pakistan, l’Uzbekistan e il Tagikistan per mantenere lo spazio aereo aperto per le operazioni antiterrorismo americane in Afghanistan. Una conferma di attività in corso che vedono Washington concentrarsi su un ruolo delle repubbliche centro-asitiche che va oltre gli aspetti tecnici legati alle concessioni per far passare i droni indirizzati contro capi-miliziani. Attività che porterà avanti nonostante la sfera di influenza statunitense nell’area sia annacquata dal ruolo russo, turco e cinese.

Nel suo intervento, il sottosegretario ha descritto la Russia e la Cina come “preoccupate” per la presa di potere da parte dei Talebani: “Sia la Russia che la Cina sono nervose, nonostante ciò che i loro canali di propaganda suggerirebbero”. Entrambi i paesi sono più disposti a lavorare con i talebani di quanto lo sia l’America per una ragione pragmatica: ne soffrono la presenza ai propri confini e nella propria sfera di influenza diretta e temono che se il Paese dovesse scivolare nel caos l’effetto regionale sarebbe devastante. Sia in termini di ricaduta sui progetti economico-commerciali che tagliano l’area, sia sul piano della stabilità securitaria.

Anche in quest’ottica la Russia ha ospitato una conferenza internazionale la scorsa settimana includendovi rappresentanti talebani e di tutti i Paesi confinanti con il regno dei Talebani. Gli Stati Uniti hanno saltato la riunione, citando “difficoltà tecniche”, ma la realtà è che la conferenza è stata parte del confronto in corso tra le democrazie occidentali e i sistemi autoritari sui modelli per trattare gli affari internazionali.

Domenica, l’ex inviato degli Stati Uniti in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, ha messo in dubbio le stime dell’intelligence di Washington sulle capacità future dell’Iskp: le nostre capacità di prevedere le cose è discutibile, ha detto alla CBS, “dobbiamo essere un po’ più umili a questo proposito” — il riferimento va alla caduta di Kabul, rapida al punto di non essere stata prevista da Washington quando, tramite Khalilzad, trattava  a Doha un accordo con i Talebani.

Secondo l’ex inviato, gli Stati Uniti sono “molto più sicuri di quanto fossimo prima di andare in Afghanistan (nel 2001), quando Al Qaeda gestiva i campi di addestramento”. È una forma di riconoscimento del lavoro svolto in venti anni di “War on Terror” a detrimento delle attuali stime dell’intelligence, ma anche un’iniezione di fiducia sui Talebani, che al momento si trovano a dover gestire quasi da soli la sicurezza interna all’Afghanistan mentre il nemico numero uno, l’Iskp, cresce in modo incontestabile.

Lo Stato islamico nel Khorasan ha condotto dozzine di attacchi da quando i Talebani sono tornati al potere. Il tentativo è di intestarsi il ruolo di resistenza, violenta, contro i nuovi governanti e creare su questo le basi del proselitismo. Non a caso Amaq News, media globale di propaganda baghdadista, comunica costantemente certe azioni, anche quelle minori. Nel frattempo, il gruppo è tornato a muoversi anche su altri fronti — come si è visto nelle ultime ore in Iraq.

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