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“Affidabile, amabile e rispettabile”. Questa l’immagine che i diplomatici cinesi devono raccontare al mondo secondo Xi Jinping. A inizio settimana, il presidente è intervenuto a una riunione del Politburo del Partito comunista cinese tracciando i contorni di quella che è a tutti gli effetti una svolta: la Cina deve “essere aperta e sicura ma anche umile e modesta”, ha detto come riportato dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua.

Le sue parole potrebbero segnare l’inizio della fine di una tattica comunicativa che i funzionari di Pechino hanno adottato per anni, rubando anche alcune pagine dal manuale russo quando si è trattato di alimentare fake news e disinformazione. L’apice è stato raggiunto durante gli ultimi mesi. Quelli più difficili della pandemia Covid-19, tra scaricabarili su altri Paesi (gli Stati Uniti ma anche l’Italia) per l’origine del contagio e campagne d’influenza aggressive a suon di “aiuti” che erano tutt’altro che a buon prezzo o gratis. E quelli segnati dalle frizioni con l’Occidente su Hong Kong, Taiwan e Xinjiang ma anche dalle tensioni con l’India.

I simboli di quella tattica sono i due portavoce del ministero degli Esteri: Zhao Lijian, che dopo la decisione del presidente Joe Biden di approfondire le indagine sull’origine del Covid-19 ha accusato gli Stati Uniti di voler riportare in auge la teoria della fuga i laboratorio per “distogliere l’attenzione”; e Hua Chunying, che via Twitter aveva alimentato la fake news degli italiani che dai balconi avrebbero cantato “Grazie, Cina”. Un’operazione, quella, che, come rivelato da Formiche.net, poteva contare su un esercito di bot sui social per rilanciare i contenuti pro Pechino e che, come spiegava Pagella Politica, si inseriva “in quella che sembra essere una più larga operazione da parte di Pechino per minimizzare le possibili responsabilità del governo cinese nella diffusione iniziale del Covid-19 e per veicolare il messaggio che la Cina venga apprezzata all’estero per come ha gestito, e sta gestendo, l’emergenza coronavirus”.

Sono loro i due più noti esemplari di “lupi guerrieri”, come sono stati ribattezzati i diplomati cinesi che difendono aggressivamente Pechino riprendendo un film patriottico del 2015. Un tipo di diplomazia che sembrava aver generato più preoccupazioni che adesioni, come notava già a ottobre Kai He, professore di relazioni internazionali alla Griffith University, in Australia, in un saggio apparso su The Conversation.

Più recentemente, su Foreign Policy il professor Sulmaan Wasif Khan della Fletcher School alla Tufts University, negli Stati Uniti, ha sostenuto che i lupi guerrieri hanno interrotto la “grande strategia” della Cina e rappresentano un concreto rischio interno. “Il vero pericolo è che una volta che la tossina viene diffusa attraverso il sistema, non si sa dove finirà”, ha scritto.

E in effetti, un sondaggio di ottobre del Pew Research Center in 14 Paesi restituiva un’immagine della Cina in larga parte negativa. Le opinioni negative aveva raggiunto i massimi in nove di questi Paesi da un decennio. L’Italia, come raccontavamo su Formiche.net, era l’unico Paese tra i 14 in cui la maggioranza dei cittadini approvava la risposta cinese al coronavirus (cioè i lockdown). Inoltre, per il 57% degli italiani era la Cina la più influente potenza economica al mondo.

Ma, come notato dal Washington Post commentando la svolta di Xi, “questo declino dell’immagine internazionale della Cina ha avuto luogo in un periodo in cui gli Stati Uniti erano guidati da un leader globalmente impopolare (Donald Trump, ndr) le cui politiche America First hanno attirato poco sostegno fuori dai confini degli Stati Uniti e un’ostilità record all’interno”. Oggi, con Biden alla Casa Bianca il pressing su Pechino non si è ridotto ma è cambiato lo stile, più morbido ma multilaterale. Basti pensare alle richieste ai Paesi alleati e partner i boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino 2022 a cui fa da contraltare il flop della diplomazia vaccinale cinese, complicata dai rapporti sulla bassa efficacia e dalle nuove ondate.

Due dei casi più recenti dei “lupi guerrieri” sono andati in scena in Europa. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha dichiarato, parlando dello Xinjiang, che “i nostri amici europei sanno cos’è il genocidio”. E l’ha fatto durante un webinar organizzato dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, in Germania. Nelle scorse settimane, invece, l’ambasciata cinese a Parigi aveva attaccato duramente via Twitter lo studioso Antoine Bondaz, ricercatore della Fondation pour la recherche stratégique, che aveva denunciato le pressioni della Cina per impedire ad alcuni parlamentari francesi di andare in visita a Taiwan. Due episodi che non hanno fatto che suscitare reazioni di condanna da parte europea.

Ma i “lupi guerrieri” sono noti anche in Italia. Come già evidenziato su queste pagine, Li Junhua, l’ambasciatore cinese a Roma, in due anni nella capitale si è fatto notare per diversi attacchi: quello all’ex segretario di Stato americano Mike Pompeo mentre era in visita ufficiale nel nostro Paese, quello alla Lega per il flash mob a favore del movimento democratico di Hong Kong e quello ai parlamentari che avevano ospitato l’attivista Joshua Wong. In mezzo aveva anche provato ad ammorbidire l’immagine aggressiva. “Lupi guerrieri”? “Più azzeccato Kung Fu Panda”, disse prima di tornare su posizioni più assertive. Come dimostrato dal comunicato diffuso nei giorni scorsi dopo la risoluzione della commissione Esteri della Camera che condanna la persecuzione degli uiguri in Xinjiang. “Ingerenza negli affari interni cinesi”, si leggeva in una nota che tradiva il nervosismo per un atto politico che può scrivere una nuova pagina dei rapporti bilaterali.

La svolta di Xi sui “lupi guerrieri” lascia un interrogativo aperto. Iniziative come quella di Beppe Grillo e del senatore Vito Petrocelli, rispettivamente fondatore del Movimento 5 stelle e presidente della commissione Esteri del Senato oltreché esponente pentastellato, a difesa delle pratiche cinesi contro gli uiguri nello Xinjiang verranno apprezzate di più o di meno?

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