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In queste ultimi mesi si è fatto un gran parlare di “Nuova Guerra Fredda”. Personalmente – pur valutando nell’ordine delle possibilità l’ipotesi di un aperto conflitto (che questa volta avrebbe difficoltà a rimanere circoscritto) sul Confine orientale, baricentrato sul Mar Nero – ritengo questo slogan (come anche la teoria dello “Scontro di civiltà”) nulla più di un insieme di parole d’ordine “mobilitanti” dell’Occidente, espressione di una visione strategica meccanicista che ha come principale effetto quello di avvicinare ancor di più Russia e Cina.

L’unico reale obiettivo che potrebbe eventualmente cogliere sarebbe un rallentamento dell’integrazione energetica tra Berlino e Mosca esemplificata dal raddoppio del gasdotto Nord Stream 2, che a pieno regime dovrebbe avere una portata di 55 miliardi di metri cubi l’anno. Si tratta di un progetto che dopo la crisi in Ucraina e l’occupazione della Crimea acquista una valenza ancor più politica: un potente strumento di pressione verso Kiev (ma anche una sfida agli attuali equilibri energetici dell’Europa).

Se si dovesse giungere a un passo dallo scontro aperto, per la Germania sarebbe difficile mantenere l’ambiguo posizionamento che ha caratterizzato – almeno nell’ultimo ventennio – la sua strategia nei confronti di Russia e Cina.

Un obiettivo comunque di corto respiro, rispetto al rischio di una nuovo guerra alle porte dell’Europa, o quanto meno a un avvelenamento delle relazioni internazionali, una grave battuta d’arresto della globalizzazione e la creazione di un monolitico blocco in cui siano saldati gli interessi di Russia, Iran e Cina: un blocco così forte da poter attrarre anche lo spazio turcofono e altre realtà periferiche del Continente eurasiatico.

Oggi, soprattutto negli Usa e nei Paesi dell’Europa orientale, risulta facile dipingere la Russia di Putin come una nazione aggressiva e revanscista. E ciò a differenza degli anni del Secondo conflitto mondiale quando l’Urss di Stalin diede un contributo fondamentale alla vittoria sul nazismo.

Le paure attuali sono per molti versi infondate ed esagerate e al contrario non tengono conto che l’allargamento a Est della Nato ha di fatto superato non solo la zona d’influenza dell’ex Patto di Varsavia ma gli stessi precedenti confini dell’Unione sovietica, con tutto quello che ne consegue.

Stupisce in particolare l’atteggiamento di alcuni Paesi scandinavi che hanno totalmente abbandonato il loro tradizionale neutralismo. Pensiamo alla Svezia e alla Finlandia. È vero che in un passato (più remoto per la Svezia, più recente per la Finlandia) entrambe hanno combattuto contro la Russia ma fino a pochi anni fa era impensabile che questa eredità storica avesse la capacità di condizionare il loro attuale atteggiamento.

Il paradosso della Russia persiste – un’economia debole e una sostanziale forza militare – anzi è destinato a crescere come anche il dinamismo tedesco che si muove anch’esso su una traiettoria contradditoria: la principale contraddizione che permane sta proprio nel rapporto tra Berlino e i Paesi dell’Europa orientale. La Germania da parte sua non vuole arrestare la propria espansione verso Est e in questo senso ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare l’allargamento voluto da Prodi (e in realtà ispirato – come ci ricordano Giuseppe Sacco e Sergio Romano – dai Conservatori britannici in chiave anti-europeista).

Oggi i Paesi della “Nuova Europa” fanno parte della filiera del valore del sistema produttivo tedesco ma sono ostili a Mosca, da qui le difficoltà di Berlino nel mantenersi in equilibrio tra queste sue due divergenti priorità geostrategiche.

Al momento, e forse a seguito del corto circuito seguito alla difficile transizione e ai fatti di Capitol Hill, mi sembra che da Washington giungano segnali contradditori che puntano a implementare una fallimentare strategia di “doppio contenimento” nei confronti di Cina e Russia.

In particolare, nei confronti di quest’ultima, Trump – in aperto contrasto con una parte degli apparati del Deep State che, per inerzia, continuava ad avere una postura da “Guerra Fredda” – aveva teso una mano a Putin (prontamente stretta) rilanciando lo “spirito dell’Elba”, in ricordo dello storico incontro tra le truppe americane e sovietiche sulle sponde del fiume tedesco nel 1945, invocandolo, «come esempio di come i loro Paesi potessero cooperare».

Questo approccio avrebbe potuto avere la portata della diplomazia del ping pong inaugurata da Nixon e Kissinger, determinante nello spaccare il fronte comunista, allontanando Pechino da Mosca e segnando in questo modo l’esito del confronto.

Oggi, invece, la logica bideniana delle “Democrazie di mercato” contro “Autocrazie” pensata per tenere insieme l’Occidente potrebbe favorire il riaccendersi di un doppio arco di crisi (alla Brzezinski): uno nell’Ucraina orientale (per disinnescare GeRussia) e un altro in Mesopotamia (per far deragliare la Via della Seta terrestre).

L’effetto collaterale è comunque quello – come detto all’inizio – di avvicinare ancor più Russia e Cina.

Contro questo rischio anche negli Usa si stanno levando molte autorevoli voci: lo stesso Kissinger («Il rischio è che il mondo scivoli in una catastrofe comparabile alla Prima Guerra Mondiale»), Robert KaplanWhy Russia Is the Problem From Hell: America must try to move Russia away from China and improve relations while maintaining deterrence»), Foreign Affairs che non solo ha dedicato la copertina del suo ultimo numero al declino statunitense («Decline and Fall») ma ha affidato a un editoriale dall’eloquente titolo – «Crisis of Command» – il compito di illuminare il pernicioso effetto dell’influenza del complesso militar-industriale sulla lucidità delle scelte nel campo della politica internazionale.

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