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Già prima della epocale sfida del Recovery plan, il tema generale della decisione e dell’azione pubblica, e quello, connesso, dell’elevazione del loro livello, si poneva con forza. Ora che il tornante della storia è proprio quello del Recovery, quel tema si ripropone con una forza speciale. Come e più di prima, si tratterà di prendere buone decisioni, di fare cose concrete e utili, e di fare presto (senza tuttavia fare frettolosamente).

Ma amministrare la cosa pubblica è – oggi – sfida difficile. Rispetto ad essa, la Corte dei conti è chiamata a mantenersi con costanza equidistante dal buonismo irresponsabile così come dal facile giustizialismo, anzitutto a tutela della parte sana, certamente maggioritaria, dei decisori pubblici (in una parola, degli onesti e capaci), così come dei cittadini, destinatari ultimi delle loro azioni e decisioni.
Dall’ideazione da parte di Cavour (citato dall’attuale premier nel discorso con cui ha chiesto la fiducia alle Camere) sino alla giurisprudenza costituzionale degli ultimi decenni, è stata costante l’attenzione alla responsabilità per danno erariale dei decisori e degli operatori pubblici, che, se non ragionevolmente limitata, <<è suscettibile di determinare un rallentamento nell’efficacia e tempestività dell’azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa>> (così, Corte costituzionale, sent. n. 355/2010).
Il tema è quello – per usare una categoria (anzitutto mediatica) ormai consolidata – della c.d. “paura della firma”.

Un tema tanto antico quanto attuale, per il quale già Cavour aveva individuato un antidoto, rappresentato – appunto – da “un castigo in danaro”, con conferimento al giudice contabile del potere equitativo (“secondo le circostanze dei casi”) di “porre a carico” dei responsabili “una parte soltanto dei valori perduti”. Questo potere, discrezionale, di calibratura e gradazione delle responsabilità individuali, affonda le sue radici nel dato, oggettivo e di comune esperienza, che nella causazione di un danno erariale hanno spesso forte incidenza anche disfunzioni o anomalie proprie del sistema e dell’apparato amministrativo in quanto tale, destinate talora a restare, malgrado gli sforzi degli organi requirenti, non imputabili specificamente ad una o più persone. In simili situazioni, addossare ciononostante l’intero danno subito dalla Pa all’amministratore o al funzionario evocato a giudizio, sarebbe evidentemente iniquo.

In nome e in funzione di questo obiettivo è stato enucleato e sviluppato un sistema di giustizia di tipo dedicato, fatto di un plesso giudiziario formato da magistrati con particolare conoscenza della macchina pubblica (nei suoi pregi e nei suoi difetti), chiamati ad applicare regole peculiari, più vicine all’esperienza del diritto civile che a quella del diritto penale, per compiere quella valutazione discrezionale ed equitativa di cui si è detto, volta cioè a stabilire quanta parte del danno complessivo subito dalla Pa debba essere addossato al convenuto, e quanta invece debba restare a carico della medesima, a titolo di c.d. rischio d’impresa (così, Corte costituzionale, sent. n. 183/2007).

Ma anche questo impianto di cavouriana ispirazione, come del resto ogni cosa, è perfettibile. E, in tempo di Recovery plan, piuttosto che una soltanto ci sono molte possibili soluzioni per il problema della “paura della firma”, che, a torto o a ragione, esiste e non può essere ignorato. Il recente Dl semplificazioni (n. 76/2020) è intervenuto sul punto, introducendo una moratoria sino a fine 2021 sul danno erariale da colpa grave. Una ricetta drastica, che muove dall’assunto che quella paura sia, più propriamente, la paura di non riuscire a dimostrare la propria innocenza (in sostanza, di non essere assolti), all’esito del processo contabile. È una soluzione, ma non ritengo – e lo dico anche da componente togato dell’organo di autogoverno della Corte dei conti – che sia “la” soluzione, e tantomeno la migliore. Personalmente, credo infatti che la paura che più spesso paralizza la firma sia, oggi come ieri, un’altra: non quella di non (riuscire a) “uscire bene” dal processo, ma quella, invece, di entrarci. Se è così, la soluzione va cercata non nelle moratorie dell’imputabilità per colpa grave, bensì nel rafforzamento dei meccanismi di garanzia, sia introducendo soglie massime di valore per gli importi di condanna (come già accade per la responsabilità dei medici pubblici, dopo la legge n. 24/2017), sia attraverso la creazione di certezze anticipate (con più pareri, per un verso, e più controlli, per altro verso, rapidi ed efficaci) che risparmino all’azione amministrativa la zavorra, a danno del sistema Paese e delle sue necessità, di insicurezze e titubanze del decisore pubblico.

Ricette, queste, da tempo evidenti, e tutte individuabili anche nel discorso del presidente Draghi alla sua prima uscita pubblica, proprio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti, un paio di settimane fa.

È dunque tempo di elevare, con interventi correttivi tutto sommato di circoscritta portata, ma di grande impatto sistemico, il livello delle garanzie per gli agenti pubblici non in dolo, e di offrire – con le stesse funzioni che da decenni sono intestate alla Corte dei conti dalla legge – più punti di riferimento certi per chi, nelle amministrazioni, è chiamato ogni giorno ad assumere decisioni importanti e gravose.

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