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Ci ostiniamo a chiamare partito qualcosa che ormai è stato seppellito con il secolo breve e che oggi ci guarda con la faccia stranita di un fantasma fuori dal suo recinto d’oltretomba. Il partito, per stare all’unico punto fermo agguantabile in Costituzione, sarebbe quella libera associazione di cittadini, si suppone organizzati in base ad una comune ispirazione ideologica, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

Balzerebbero agli occhi alcune buone cose che oggi sembrerebbero profumare di piccolo mondo antico: organizzazione stabile, idem sentire, metodo democratico e politica nazionale. Si tratta più o meno delle stesse cose che caratterizzano la forma-partito di ordinamenti come quello inglese, tedesco, americano, tanto per fare qualche riferimento noto, con partiti politici che li’ affondano le loro radici alle origini delle democrazie.

Vivono con difficoltà il presente, non c’è dubbio, ma sono sempre quelli da anni. Alcuni da secoli. Bene, in Italia vige un’altra regola in cui il partito-organizzazione stabile quasi non esiste più (il Pd? Forse. Ma molto forse), il riferimento ideologico-valoriale lasciamolo perdere nell’età orgogliosamente post-ideologica, il metodo democratico è un relitto ingombrante del secolo scorso (oggi vige il cesarismo) e la visione politica larga (“determinare la politica nazionale”, art.49 Cost.) è soppiantata dalle issues strette, quelle che si addicono al movimento. Insomma: via i partiti dentro i movimenti. Come i Cinque Stelle.

I Cinque Stelle sono un movimento – e almeno lo dicono con lealtà fin dall’inizio – che si è trovato a subire una trasmutazione necessaria in partito con il risultato fragoroso alle elezioni del 2018: un 32,7% alla Camera che ricordava le performance dell’ultima Dc ( perché la penultima stava intorno al 38%). L’idem sentire, oltre un vago sentiment antagonista, era ancora in costruzione, la visione “larga” stava nell’iperuranio del Casaleggio-pensiero, in cui si mischiavano suggestioni new-age e messianesimo tecnologico o nelle iperboli situazioniste di Beppe Grillo.

Il “metodo democratico” e l’organizzazione declinate con le risorse della Rete avrebbero potuto rappresentare i veri elementi di novità del Movimento, facendo diventare pratica concreta le promesse della democrazia continua inseguita da una buona fetta della dottrina politologica. Insomma: una strada nuova per una nuova modalità della organizzazione politica.

Così non è stato: l’impatto, in un tempo ancora acerbo, con le responsabilità di governo derivanti dall’investitura elettorale, ha impedito l’incubazione di una classe dirigente ancora troppo giovane nell’esperienza politica nazionale e nella formazione di un pensiero originale e, insieme, lo sviluppo di una via nuova della democrazia di partito, che facesse leva in modo trasparente sulla risorsa della Rete.

La linea di frattura di oggi, allora, tra l’ala “guevarista” e quella “istituzionalizzata”, lontano dall’essere uno scontro ideologico che annuncia secessioni nobili, sembra piuttosto l’epilogo di una resa dei conti tra chi è nel governo e chi no. Nella certezza – per i riottosi antigovernativi – che per il momento la legislatura continua e che con essa la permanenza negli scranni parlamentari.

Su chi tra i Cinque Stelle ha le maggiori responsabilità di governo, a chi sta dialogando con gli alleati per un orizzonte politico non effimero, a chi ha imparato a pensare in modo istituzionale lasciando per strada la modalità antagonista, incombe oggi l’onere di costruire una forma-partito vera. Partendo dalla regola della democrazia interna.

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Su chi tra i Cinque Stelle ha le maggiori responsabilità di governo, a chi sta dialogando con gli alleati per un orizzonte politico non effimero incombe oggi l’onere di costruire una forma-partito vera. Il commento di Pino Pisicchio

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