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In cuor suo l’analista, in particolare di politica estera, si sente simile all’astronomo che aspira ad osservare eventi celesti ma finisce con l’essere confuso con l’astrologo cui si chiede un oroscopo. Vorrebbe descrivere le relazioni internazionali ma viene interrogato sul futuro delle principali crisi mondiali.

È una trasposizione di intenti diventata norma cui si soggiace confortati dal fatto che, nell’eterno presente dell’informazione h24, le previsioni centrate hanno troppi genitori, quelle sbagliate sono orfane premature.

Ad un anno dall’inizio formale del Covid, mentre si sprecano i riassunti giornalistici sul tema, a costo di sembrare ineleganti torniamo su alcune nostre ipotesi formulate in questo periodo per un primo fact-checking a posteriori.

La principale previsione ad essersi avverata è proprio quella che a marzo 2020 tra i primi definimmo la “corsa al vaccino”, diventato il vero asset di politica estera nella terza fase pandemica, soprattutto per quei Paesi – su tutti, la Russia – che ne hanno nazionalizzato sia percorso di ricerca che produzione che, soprattutto, distribuzione.

La matrice statale del vaccino ne ha fatto uno strumento geopolitico flessibile, permettendo a Mosca di muoversi come un “donatore” nel decidere a chi consegnarlo prima, se del caso a condizioni privilegiate. E di avvantaggiarsi in quella che è a tutti gli effetti una competizione orizzontale con gli altri donatori nella “guerra degli aiuti” per legare a sé il beneficiario di interesse strategico di turno. Micro o macro non importa: un lancio di Interfax del 19 Febbraio 2021 titola che “la Repubblica di San Marino è il 30simo paese al mondo a prendere Sputnik V”.

È la potenza dell’uno-vale-uno nel contesto diplomatico internazionale.

Si moltiplicano casi specifici – clamoroso quello della Serbia – dove l’arrivo in massa del vaccino russo sta ridisegnando le sfere di influenza politiche complessive a vantaggio di Mosca e a scapito di Bruxelles, Washington – e a volte pure Pechino.

Si veda anche la recente telefonata tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Ergodan, dove i due presidenti negoziano la collaborazione nella produzione del vaccino e al contempo parlano di Nagorno-Karabakh, Siria e Libia. Inoltre, con l’ingresso di Sputnik V nella stessa Ue attraverso canali bilaterali di Stati membri – l’Ungheria lo ha già importato mentre Croazia e Slovacchia stanno negoziando – si crea un effetto Cavallo di Troia talmente evidente da non dovere essere nemmeno dissimulato.

Lo riassume bene Sergey Lavrov che con inusuali toni perentori minaccia Josep Borrell di interrompere ogni collaborazione sullo Sputnik V in caso di inasprimento delle sanzioni europee per il caso di Alexei Navalny. Non è esagerato dire che per Mosca il vaccino stia diventando uno strumento di condizionamento politico più efficace dell’energia.

Non concederlo come retaliation a Paesi terzi è mossa molto più reale e fattibile del tagliare loro gli approvvigionamenti di gas, da cui in ultima istanza dipende la sopravvivenza della stessa fragile economia russa. Che questa evoluzione del vaccino come strumento strategico di politica estera non sia casuale ma sia stata programmata nei dettagli dall’inizio trova conferma in tre aspetti.

Il primo è che, nonostante la difesa d’ufficio che Mosca ha fatto dell’Oms davanti alla campagna di critiche capeggiata da Donald Trump, si è guardata bene dal coinvolgere la dimensione multilaterale per un piano di distribuzione vaccinale, anche là dove l’approccio è continentale (come i 300 milioni di dosi offerte da Mosca al Centro per il controllo delle Malattie Infettive – CDC – in Africa).

Il secondo è che, seguendo in parte una tradizione diplomatica sovietica, il vaccino è stato pensato come un prodotto di soft-power principalmente da export. Lo dimostra il ritmo della campagna di distribuzione del vaccino più veloce all’estero che all’interno del Paese, nonché la crescita esponenziale degli accordi fatti da Mosca per facilitare decentramenti produttivi dello Sputnik V nei paesi beneficiari (pare che pure alcune Regioni italiane si stiano muovendo in questo senso, rincuorate dall’endorsement scientifico arrivato dallo Spallanzani di Roma).

Ma l’elemento che maggiormente conferma la pianificazione politica prima ancora che sanitaria dell’operazione da parte di Mosca è dimostrato dalla genesi stessa di Sputnik V che vede uno dei suoi prodromi cruciali nella spedizione di aiuti russi all’Italia, ipotizzato su queste pagine pure a marzo 2020.

Nell’assoluta confusione della prima fase pandemica, l’arrivo dei militari di Mosca in un paese Nato divise molti osservatori in una polemica dal retaggio ideologico tra favorevoli e contrari all’intervento.

Li distolse dalla considerazione che, mandando corpi di élite di ricerca nel campo batteriologico nel primo scenario pandemico aperto dopo quello cinese, i Russi ottenevano a Bergamo e Brescia accesso preliminare e diretto a sequenze virali originali. Raccogliendo preziosi bio-dati per lo sviluppo del loro vaccino con alcuni mesi in anticipo rispetto a quelli dei Big-Pharma.

Lo stesso pregiudizio Occidentale si è riproposto all’annuncio russo della scoperta di Sputnik V. Accolto con freddezza ed una certa ironia, al vaccino russo fu imputato di essere stato rilasciato frettolosamente, senza avere avuto un’adeguata sperimentazione.

Oggi che pure Lancet ne riconosce l’efficacia sappiamo che – come scrivemmo ad agosto 2020 – il vaccino russo è probabilmente stato sviluppato e testato in ambienti militari con protocolli per tradizione tenuti segreti, di cui non sapremo mai a sufficienza. Né alla luce di questo è realistico aspettarsi in futuro che Mosca apra i suoi laboratori come richiesto dall’Ema per certificare Sputnik V.

Sottolineammo inoltre che il vaccino russo era da prendere sul serio sia per il nome sacro scelto dal Cremlino per battezzarlo (il primo satellite umano mandato nello spazio); sia per il fatto che Putin in persona ne aveva dato l’annuncio, mettendo in gioco il suo carisma in una fase interna delicata.

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