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È passato ormai più di un anno da quando — era il 9 febbraio 2020 — non si hanno più notizie di Fang Bin, businessman e citizen journalist cinese che, insieme a Chen Qiushi e Li Zehua, fu tra i primi a trasmettere e a diffondere su internet le drammatiche e concitate immagini degli ospedali sovraffollati durante le prime settimane di lockdown a Wuhan. Il suo profilo e il suo nome sono a oggi scomparsi dalla memoria di Baidu, mentre i suoi video di denuncia contro la polizia cinese sono ancora liberamente visibili su Youtube.

È passato un anno da quando l’insorgenza del Covid-19 e la sua diffusione dalla Cina al resto del mondo hanno inevitabilmente puntato i riflettori su un Paese che, complice la salda leadership del presidente Xi Jinping, ha compiuto negli ultimi anni incredibili progressi visibili agli occhi di tutti.

I risultati ottenuti, non solo da un punto di vista economico, ma anche e soprattutto in termini di soft power, sono il frutto di uno sforzo coordinato tra il governo e la popolazione, secondo una sinergia che tutti abbiamo visto in atto con lo scoppio della pandemia. Questa particolare, quasi unica alchimia ha un nome: “sogno cinese” (中国梦 Zhōngguó mèng), un sogno di benessere e prosperità della nazione che, a sua volta, si riflette nella vita di ogni singolo cittadino cinese.

Perché questo sogno si avveri, e soprattutto affinché si avveri in un Paese tanto sterminato e vario quale è il Regno di mezzo (中国 Zhōngguó), è necessario che la popolazione e il governo della Repubblica popolare cinese vivano in completa armonia in vista di quell’obiettivo comune da raggiungere. I cittadini cinesi stessi, in virtù di questo patto sociale, sono dunque i primi a cedere e a concedere parte di quelle che per noi costituiscono libertà fondamentali in vista di quel benessere e di quella stabilità promesse, e a vedere come sovversivi coloro che invece si discostano dal diktat e che promuovono una narrazione differente da quella ufficiale.

Ma fino a che punto può spingersi un governo per preservare e mantenere l’unità e la coesione della società che governa? Una risposta univoca a questa domanda non esiste, e abbiamo scoperto andare di pari passo al concetto di libertà che una società si è costruita nel corso dei secoli.

L’emergenza sanitaria è stata l’involontario escamotage, nel documentario Project China, per provare a riflettere su questa domanda e per dialogare con giovani cinesi che vivono stabilmente in Italia da diversi anni. Le risposte sono per certi versi sorprendenti e la differenza culturale esplode, portando lo spettatore occidentale a rendersi conto e a riconoscere i propri costrutti sociali, intellettuali e umani.

Altrettanto, quella stessa distanza obbliga a dismettere il proprio punto di vista e a provare a comprendere un sistema di valori e una società nella quale il rispetto e l’obbedienza all’autorità (sia essa familiare, scolastica, lavorativa o politica) e ciò che essa rappresenta non possono e non devono essere messe in discussione perché “se vogliono (il governo cinese, ndr) fare una cosa, la fanno! Non come in Europa, dove tutto sembra più una guerra di ego e non si riesce a realizzare nulla”. Questo momento di confronto, se opportunamente colto, può quindi portare a riflettere sulle nostre di libertà — o presunte tali — e può aiutare a comprendere meglio anche la nostra identità e ciò che riteniamo rappresentarci.

Come ha affermato Gabriele Battaglia in un’intervista per Project China, “noi ci siamo ribellati al Padre innumerevoli volte, la nostra storia è costellata di rivoluzioni e stravolgimenti, difficilmente potremmo accettare certe imposizioni se non in uno stato d’emergenza”. Così possono apparire spiazzanti la naturalezza e la semplicità con le quali la società cinese, e nello specifico i cittadini cinesi, riescono ad adattarsi velocemente alle aperture e alle chiusure che il governo impone loro in virtù di un bene deciso a priori, manovrando opportunamente le libertà e le concessioni come lacci di una borsa che rischia sempre di strabordare.

È di questa settimana, per esempio, la notizia dell’ennesima chiusura di una piattaforma social occidentale, Clubhouse, che ha permesso per qualche giorno ai netizen cinesi di esprimersi su contenuti e argomenti invisi al Partito comunista cinese; eppure quella che ai nostri occhi occidentali potrebbe sembrare una lampante violazione di libertà — la libertà di esprimersi —, è invece letta come uno strumento per preservare la stabilità e la prosperità del Paese e dunque un’iniziativa da non contestare.

Tuttavia, questo sforzo continuo e incessante di presentare la Cina secondo una narrazione precisa, di controllare l’incontrollabile, riscrivendo la storia anche mentre si sta svolgendo, sembra tradire una fragilità sistematica, strutturale che difficilmente può essere ignorata e che lascia supporre che il Paese debba impegnarsi diversamente per potersi porre come interlocutore maturo e affidabile sulla scena internazionale.

Il caso Clubhouse è un sintomo dei problemi della Cina di oggi

Di Elisabetta Giacchi

Fino a che punto può spingersi il governo cinese per preservare e mantenere l’unità e la coesione della società che governa? Il caso Clubhouse letto da Elisabetta Giacchi, referente di Project China

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