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Va bene: fossi stato il Pd non avrei ceduto sulla riforma costituzionale mutando il mio voto dopo tre argomentati No in Parlamento al taglio di 345 deputati e senatori. Ma, fossi stato l’avvocato del Pd, chiamato a difenderlo dall’accusa di aver cambiato registro per stare al governo con il M5S, avrei potuto dire parecchio a mia discolpa.

Che, per esempio, solo così avrei salvato la legislatura; che solo così avrei impedito l’assalto al Palazzo d’Inverno della destra salviniana, obiettivo che, dal punto di vista di un partito della sinistra non è secondario; che solo così, stando in maggioranza, avrei potuto “riparare” un bel po’ di guasti che si sarebbero verificati nell’ordinamento costituzionale dopo l’approvazione della riforma. E poi, diciamolo chiaramente, al voto finale sul fatidico taglio sono stati solo 14 i deputati che hanno detto No mentre 553 hanno “orgogliosamente” (come fa dire a certe squadre bizzarre Paolo Bonolis in una sua trasmissione soft core sulle reti Mediaset) votato per tagliarsi, evidentemente perché non sufficientemente soccorsi da quell’autostima che garantisce ad ogni essere umano di non cadere in depressione.

Dunque, se il Pd è colpevole, lo sono anche tutti gli altri, nella distorta presunzione di assecondare il “sentiment” del popolo, mentre nella missione di ogni partito politico dovrebbe trovare posto sempre un intento formativo, quasi pedagogico. Non l’adesione alla sindrome di Ponzio Pilato che mandò a morte Cristo, ben sapendo che era innocente, affidandone il giudizio alla folla. Gente che dava del tu alla filosofia avrebbe parlato di “oclocrazia”, il governo delle masse informi, ma questa è un’altra storia. La storia del Pd, invece, riguarda una forza politica, ultima tra quelle che offre il convento, che un po’ somiglia ad un partito, come quelli che si facevano una volta.

Insomma, roba di congressi, di contendibilità del vertice attraverso procedimenti democratici, roba in cui si sente circolare qualche idea e persino il sano dissenso interno. Forse si è estinta anche per il Pd la fonte del nutrimento “ideologico”, peraltro rimasta sempre incerta tra le due ispirazioni (cattolico-solidale e laico-socialista) ma, dato che il mondo intero arranca nel terreno incognito di un nulla post-ideologico, questo non rappresenta un vulnus decisivo. Possono essere letali, invece, l’indeterminatezza politico-programmatica e la mancanza di orizzonte. Comportamento che può funzionare forse per le formazioni arrembanti dedite alla “guerriglia politica”, istantanea, aggressiva, antagonista. Ma non funziona certamente per un “partito” che si candida al ruolo di governo.

Ecco, il Pd può fare ancora qualcosa per concorrere a ripristinare le regole minime di una civiltà della politica messe in discussione dall’abnorme conflittualità generata dal “bipolarismo sociale” rabbioso e ignorante. Ma per farlo deve tornare ad essere partito. E stare lontano dalla “sindrome di Ponzio Pilato”.

Una proposta al volo: imporre all’ordine del giorno della politica la regolazione giuridica del partito. Insomma: un po’ di sana, vecchia democrazia. È troppo?

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