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Ancora non sono chiare le cause delle esplosioni avvenute ieri a Beirut, la capitale del Libano, che hanno provocato oltre 100 morti e 4.000 feriti, provocando danni stimati tra i 3 e i 5 miliardi di dollari e lasciando almeno 300.000 persone senza casa.

Lo stesso governo libanese, già prima dell’evento di ieri, “stimava che il 60 per cento dei libanesi vivrà sotto la soglia di povertà entro la fine dell’anno”, sottolinea in un colloquio telefonico con Formiche.net Gaja Pellegrini-Bettoli, giornalista che ha vissuto per cinque anni in Medio Oriente, dal 2013 al 2018, un’esperienza da cui è nato il libro “Generazione senza padri. Crescere in guerra in Medio Oriente” pubblicato l’anno scorso da Castelvecchi (dallo scorso giugno, invece, è in libreria “Shake-up America. Capire le elezioni 2020 come un americano” per lo stesso editore).

“Il Libano era già nel baratro totale”, spiega. Basti pensare al cambio: “Un chilo di carne costa 42 dollari. Uno stipendio da 500 dollari, ritenuto molto basso già un anno fa, equivale oggi come potere d’acquisto a soli 75 dollari”. Quella di ieri, purtroppo, “è stata la ciliegina sulla torta”, dice: “è una città che è stata livellata da tutti i punti di vista”. E a farne le spese sarà soprattutto la classe media, spiega Pellegrini-Bettoli che evidenzia come il Libano, e in particolare Beirut, si sia trovato in pochi mesi a dover affrontare prima le proteste politiche e la crisi economica, poi il coronavirus, infine il disastro di ieri.

“Non voglio alimentare il panico, ma è un colpo grossissimo per il Libano”, spiega la giornalista che evoca la carestia. “Per il cibo, il Libano dipende per l’80% dalle importazioni. Il fatto che il porto di Beirut e le strutture interconnesse siano inagibili potrebbe portare alla carestia”, dice. Infatti, “il porto di Tripoli, a Nord, non è così connesso con il resto del Paese. Aver perso quello di Beirut è un danno enorme per il nutrimento della popolazione”. Come racconta anche Repubblica, il porto è il cuore economico della città e saltando in aria ha trascinato via con sé quello sociale e culturale: “La piazza dei Martiri teatro delle rivolte del 2006 e degli ultimi mesi, sede di giornali come Al Nahar e Orient le Jour, distrutte, e poi l’area di Gemmazye e di Mar Mikhail, dove vivono i libanesi benestanti e gli stranieri e pulsa il cuore della vita notturna della città”, scrive il quotidiano diretto da Maurizio Molinari.

Per queste ragioni, “quando parliamo di perdita di posti di lavoro mi viene quasi da ridere”, dice Pellegrini-Bettoli: “Sono sette mesi che migliaia di libanesi hanno perso il posto di lavoro, hanno visto i loro conti in banca azzerati o non possono accedere ai loro dollari depositati, senza dimenticare che il tasso di suicidio è aumentato moltissimo. È forse addirittura peggio che durante la Guerra civile: almeno allora si sapeva contro cosa si combatteva”.

A ciò si aggiunge il contesto internazionale che vede Beirut piuttosto isolata. “I Paesi del Golfo non sono più gli stessi stakeholder di prima, il Libano di oggi è solo ad affrontare la crisi economica”, continua la giornalista. “Ben vengano gli aiuti del Qatar e Turchia (come da loro dichiarato) ma temo sia too little, too late”.

Quanto alle cause delle esplosioni, conclude Pellegrini-Bettoli, “la mia impressione è che purtroppo sia banalmente una questione di cattiva gestione. Sinceramente dubito che sia qualcosa fatto da Israele o da Hezbollah: è stato così devastante che sarebbe controproducente per ambedue i ‘soliti sospetti’ di queste storie”.

L'esplosione a Beirut ha distrutto la classe media. Parla Pellegrini-Bettoli

Ancora non sono chiare le cause delle esplosioni avvenute ieri a Beirut, la capitale del Libano, che hanno provocato oltre 100 morti e 4.000 feriti, provocando danni stimati tra i 3 e i 5 miliardi di dollari e lasciando almeno 300.000 persone senza casa. Lo stesso governo libanese, già prima dell’evento di ieri, “stimava che il 60 per cento dei…

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