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Il presidente del Consiglio presidenziale del governo onusiano libico Gna, Fayez al Sarraj, e il presidente della Camera dei rappresentanti, Agila Saleh, hanno diffuso oggi due dichiarazioni dialoganti e sovrapponibili in almeno due punti: la riapertura delle produzioni petrolifere e la non belligeranza. È una notizia importante, sulla cui fattiva implementazione ci sarà da aspettare sviluppi ulteriori, anche per via delle evidenti sfumature nelle due posizioni e tenendo conto della situazione sul campo. Tutto rientra nell’attuale fase del conflitto: dove si snocciola un tentativo di creare il quadro per il processo di stabilizzazione della guerra civile che da anni squarcia il paese – violentemente riattivata con la campagna lanciata lo scorso anno dal miliziano ribelle, Khalifa Haftar, che aveva provato a rovesciare il Gna (l’offensiva, già fallimentare, è franata a giugno, quando le forze haftariane sono state respinte in Cirenaica grazie all’appoggio turco al governo di Tripoli).

LA DIPLOMAZIA

Al di là di Serraj, che è il premier legittimato dal Libyan political agreement del 2015, ossia il percorso per la pace e la stabilità pensato dall’Onu, anche Saleh ha un ruolo istituzionale – riconosciuto in quel programma. L’incontro simbolico tra le due figure per questo è una notizia che ha attirato l’attenzione dei media. Arriva per altro come sbocco di un’intesa iniziativa diplomatica condotta da vari attori esterni. Come la Germania – che guida il cosiddetto processo di Berlino, dal luogo in cui s’è tenuta l’ultima conferenza internazionale per la pace libica – o gli Stati Uniti, e anche l’Italia hanno nelle ultime settimane intensificato gli incontri e le iniziative. L’ambasciatore italiano Giuseppe Buccino ha tenuto riunioni con tutti i vertici istituzionali tripolini, finalizzate anche a superare alcune divisioni interne. L’ambasciata statunitense – che oggi accoglie con successo la duplice dichiarazione – ha alzato il livello del coinvolgimento. Il ministro degli Esteri tedesco è stato recentemente a Tripoli.

Fermare le armi significa sostanzialmente evitare escalation a Sirte, città costiera sulla linea di divisione tra Cirenaica e Tripolitania, attualmente occupata dagli haftariani e oggetto di una contesa militare che vede coinvolte dall’esterno la Turchia, sul lato dell’Ovest, e l’Egitto sull’altro fronte. Il Cairo nelle scorse settimane aveva minacciato – non senza propaganda – un intervento militare se il Gna e i turchi avessero attaccato la città (da tempo stretta d’assedio). Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno già proposto la creazione di una zona demilitarizzata attorno all’area di Sirte – e nella Mezzaluna petrolifera, nell’entroterra. Serraj, sotto pressioni dell’Onu, ha fatto sua la proposta (anche se all’interno del suo governo ci sono posizioni più aggressive: quelle che l’Italia cerca di limare). Saleh rilancia con una richiesta ulteriore: fin da quando ha progettato la sua iniziativa politica per la stabilità chiede di riformare il Consiglio presidenziale, e ora ne propone addirittura un improbabile spostamento proprio a Sirte.

LANCI E RILANCI, POSTURE POLITICHE 

Servirebbe a togliere da Tripoli la centralità politico-istituzionale, “fa parte di un processo che trasformerebbe gradualmente Sirte nella capitale amministrativa della Libia. Questo garantirebbe che le leve del potere nazionale verrebbero sottratte a Tripoli, compresa ovviamente la Banca centrale”, spiega Jalel Harchaoui, research fellow del think tank olandese Clingendael Institute ad Agenzia Nova. Ma di questa proposta non si parla nella dichiarazione di Serraj, che invece rilancia a sua volta sulla necessità di elezioni presidenziali e parlamentari. Dà anche una data: il prossimo mese di marzo, e aggiunge che dovrebbero essere fatte su una base costituzionale “adeguata” e “concordata fra i libici”. Delle elezioni non parla a sua volta Saleh, leader politico della Cirenaica, territorio dove il controllo militare di Haftar ha da diverso tempo problemi di tenuta e consensi anche per via delle iniziative più dialoganti intraprese dal leader parlamentare.

Punto di incontro invece il petrolio. Dopo che da gennaio i pozzi erano stati messi sotto sequestro da forze fedeli a Haftar, nei giorni scorsi c’è stata un’evoluzione positiva legata a necessità pratiche – come il rischio di una crisi elettrica in Cirenaica – e politiche: Saleh stava per fare una dura dichiarazione sulla necessità di riavviare le attività petrolifere che avrebbe intaccato ulteriormente il consenso sul capo-miliziano dell’Est. Haftar ha ceduto, almeno parzialmente. Serraj e Saleh concordano sulla necessità della totale riattivazione, depositando i proventi in un conto corrente comune presso la Libyan Arab Foreign Bank in attesa di definire l’annosa questione della ridistribuzione interna. Tema reale, su cui non ci sono per ora proposte e soluzioni.

LE PROBLEMATICHE…

“Ancora non cambia nulla materialmente”, scrive su Twitter Tarek Megerisi, policy fellow dell’Ecfr esperto di Libia: “Piuttosto, potrebbe avviare i negoziati a venire e, cosa importante, aiuta anche a inclinare ulteriormente la bilancia nella Libia orientale verso Saleh”. Teorica duplice bontà dell’iniziativa, dato che il riavvio dei negoziati tra le due parti è un elemento imprescindibile per la stabilizzazione e dato che dall’Est Saleh ha una visione politica, e dunque più portata al compromesso, rispetto a Haftar che ha sempre pensato alla soluzione militare. Il punto resta il ruolo delle forze esterne: se dal lato della Tripolitania c’è il peso turco, dall’altro gli Emirati Arabi (più che la Russia e l’Egitto) potrebbero essere portati a non mollare la spinta militarista dietro Haftar – ancora in campo perché non c’è un reale sostituto per Abu Dhabi – rendendo questo genere di iniziative vane.

… E IL COMMENTO DI MEZRAN

“Dobbiamo fare attenzione agli sviluppi”, commenta con Formiche.net Karim Mezran, direttore della North Africa Initiative dell’Atlantic Council. “A me sembra – continua – che tra Serraj e Saleh sia in atto un confronto per chi tiene in mano il pallino dell’iniziativa politica, ma dietro mi pare che ci sia tanta volontà d’immagine e non troppa sostanza”. Perché? “Lo vediamo nelle proposte che avanzano: alcune sono effettivamente difficili da raggiungere e pare che ognuno rilanci sull’altro perché nessuno vuol farsi scavalcare. E perché nessuno ha consenso sufficiente”.

Secondo Mezran la vera partita si gioca sul fronte militare, e lì “di fatto sono Russia e Turchia a condurre il gioco. Si parlano ed è per questo che al momento i combattimenti sono fermi”. In effetti, al di là delle due dichiarazioni sul cessate il fuoco, le armi sono al momento bloccate e la volontà pare più semmai di non voler combattere. “Il problema – aggiunge l’esperto del think tank americano – è che finché questi due grandi attori esterni non abbracciano un qualche processo politico, allora certe iniziativa non saranno definitive e risolutive. Ora è chiaro che sia Serraj che Saleh hanno interessi a cercare di mostrarsi dialoganti: il primo lo deve fare perché pressato da Onu, Ue e Stati Uniti; l’altro anche dall’Egitto, dove il presidente vuol dar peso al programma lanciato dal Cairo”.

Abbiamo detto che il potere militare è nelle mani russo-turche, ma chi ha il potere politico in Libia? “A me pare che non ce l’abbia nessuno, perché le forze straniere sono molto frammentate e non interessate a gettare eccessivo peso; quelle locali sono in contrasto e non riescono a trovare una forma di compromesso politico, appunto”, chiude Mezran.

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