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Come si può non capire l’importanza basilare di quella cosa chiamata scuola? È più importante di qualunque altra istituzione del Paese. Lo dice a Formiche.net l’ex ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti che, analizzando nel merito le linee guida per la riapertura delle scuole, si sforza di costruire un ragionamento di insieme non solo tarato sull’attuale contingenza (“Non si può abbandonare una ministra in queste condizioni, che poi lei sia più o meno adeguata è un’altra questione”). Ma mettendo l’accento sul fatto che culturalmente il vertice politico del Paese non riesce a porsi la scuola come un tema.

La scuola italiana è percepita all’ultimo posto dall’immaginario collettivo italiano?

La scuola purtroppo è all’ultimo posto. Non è più una questione di percezione, ormai sono troppi anni che nonostante le classifiche europee, i dati dell’Ocse, la mancata agibilità di alcuni plessi e la tragedia che annualmente si consuma della dispersione scolastica, continuiamo a non investire abbastanza nella formazione e nell’organico. Il Covid oggi ha dimostrato tutta la gigantesca fragilità del sistema scolastico, al punto tale che l’Italia è stato il primo Paese al mondo a chiudere le scuole ma forse sarà l’ultimo a riaprirle e chissà come.

Come giudica le linee guida del ministero? Ha ragione Bonaccini ad averle definite irricevibili?

Credo che le linee guida abbiano una serie di problemi, il primo è che sono arrivate tardissimo. Per cui ci si aspettava che almeno fossero corredate da dettagli, dal punto di vista dell’implementazione, oltre che da una importantissima voce: gli investimenti. Le scuole non riapriranno a settembre se non si investirà nell’organico, dove non intendo solo gli insegnanti ma anche dirigenti, amministratori e personale ausiliario. Ci si aspetta, infatti, che si misuri la temperatura, che si formino gruppi diversi, che si entri a scaglioni, che ci sia una sanificazione costante. Ma come ottenere tutto ciò se i presidi non avranno gli strumenti idonei?

Troppa autonomia nelle linee guida e poca regia unitaria?

In pratica si è data molta autonomia dicendo ai presidi di arrangiarsi: a quel punto c’è stata una ovvia reazione di rifiuto. Se le linee guida invece fossero arrivate a marzo allora ci sarebbe stato tutto il tempo per migliorarle. Ora è tardi, settembre è alle porte. C’è quindi bisogno di una urgente presa di coscienza da parte di tutto il governo e non solo della ministra Azzolina, visto che il problema è più grosso.

Ovvero?

Non si può abbandonare una ministra in queste condizioni, che poi lei sia più o meno adeguata è un’altra questione. Occorre prendere coscienza che la scuola è di tutti e investe il futuro di tutti.

Anche sulla scuola, come su altri fronti, il governo ha coinvolto i tecnici salvo poi non ascoltarli del tutto. Quale la sua opinione?

Conosco personalmente alcuni dei tecnici che hanno lavorato nella task force sulla scuola e ritengo che siano persone competenti. Mi risulta anche che le loro indicazioni prevedessero un investimento da 5 miliardi per far ripartire le scuole. Il problema qui non è tecnico, non tocca il plaxiglas o la app, bensì nasce dalla consapevolezza che occorrono scuole su tutti i territori che siano gestibili dal punto di vista delle risorse umane. Negli anni passati abbiamo purtroppo costruito dei mega plessi scolastici, gli istituti comprensivi, dove ci sono fino a 5000 studenti e dove il preside è poco più di un sindaco di questi mini paesi senza avere però i poteri da Primo Cittadino, visto che per piantare un chiodo deve chiedere molte autorizzazioni. Nel mezzo classi con 25 studenti in media.

Cosa propone in concreto?

Come avevo proposto quando ero ministro, dovremmo tornare a fare ciò che facevamo in passato ovvero rivedere immediatamente le norme sul dimensionamento scolastico. Secondo la legge attuale in presenza di meno di 25 studenti per classe, è necessario accorpare le classi e in presenza di una scuola con meno di 600 alunni è necessario chiudere quella scuola e fonderla con un’altra. Ciò ha creato una situazione che è l’esatto opposto rispetto a ciò che ci serve. Oggi dovremmo avere una norma secondo cui in caso di scuole con più di 600 studenti il plesso andrebbe diviso in due e così in caso di classi con più di 22 alunni dividerle in due.

Con quale obiettivo?

Quello di mantenere un rapporto docente-studente che sia gestibile al di là del Covid. È chiaro che con la pandemia in corso una classe con quel numero di alunni diventa un problema per il distanziamento sociale, tutto è più complicato, senza contare altre criticità come la mobilità sociale e lo scuola bus. Dovremmo tornare ad avere delle scuole ovunque, nei paesi e nelle periferie. Le ho definite “scuole di prossimità”. Questo il principio che ho sottoposto anche alla task force. Distribuire la scuola: credo sia questa la risposta strategica, utilizzando le risorse per collegare queste scuole in una rete interna.

In che senso?

Nel senso che la didattica a distanza potremmo non più farla da casa, ma in ogni plesso del quartiere. Lì, ad esempio, l’insegnante potrebbe essere collegato via web senza rappresentare un problema, dal momento che il plesso stesso sotto il coordinamento di personale ausiliario, amministrativo o di potenziamento, potrebbe così garantire la lezione a distanza con un doppio vantaggio: realizzarla e usufruirla in una struttura predisposta e senza la supervisione dei genitori, contingenza che nei mesi di lockdown è stato un vero e proprio dramma per le famiglie. Questa capacità di visione è necessaria e indispensabile: ma se avessimo iniziato a ragionarci qualche mese fa adesso avremmo più risposte.

Queste sue istanze sono state sottovalutate dal governo anche prima del Covid?

Non credo siano solo mie queste istanze, ma dettate dal buon senso. Sì, sono completamente sottovalutate ma non solo dal governo attuale, bensì anche da quelli che lo hanno preceduto. Penso che la scuola non sia una priorità in questo momento: culturalmente il vertice politico del nostro paese, e l’attuale vertice non ne è esente, semplicemente non riesce a porsi la scuola come un tema. L’amore per la scuola io ce l’ho, sono nato alla periferia romana. Ho frequentato una scuola pubblica di frontiera, dove la tossicodipendenza a Roma era all’ordine del giorno. Se oggi sono diventato un docente universitario, uno scrittore, vivendo in quattro continenti e anche un ministro, lo devo a quella scuola, a quel grande patrimonio che mi è stato donato. Come si può non capire questo elemento? Come si può non capire l’importanza basilare di quella cosa chiamata scuola? È più importante di qualunque altra istituzione del Paese.

twitter@FDepalo

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