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La storia e la sua posizione strategica la candidavano ad essere il terminale ideale della nuova Via della Seta cinese. A distanza di un anno dal tour istituzionale di Xi Jinping, Venezia non si è ancora messa sulla via di Marco Polo. Gli investimenti cinesi promessi e cerimoniati in grande stile hanno stentato a farsi vedere.

Complice il coronavirus, che ha congelato il 20% dei container cinesi in arrivo in Italia. Così come un inossidabile e ostico nemico degli investimenti nello Stivale: la burocrazia. A gennaio la Ocean alliance, grande alleanza navale tra i cinesi e i francesi di CMA-CGM, ha annunciato che le sue navi dirette dalla Cina non avrebbero più fatto scalo nel porto della Serenissima. Il motivo? I mancati dragaggi dei canali, che hanno reso impossibile il passaggio delle grandi navi commerciali, fra la furia dei responsabili dei terminal, che stimano le perdite in un milione di euro per ogni nave che gira al largo (circa 50 milioni di euro l’anno).

Se gli affari non viaggiano a gonfie vele, rimane il valore geopolitico del piano di investimenti cinesi nei porti italiani, e le continue attenzioni che Pechino, nonostante la crisi, dedica ai terminali sulla costa adriatica. Segnali a intermittenza, che però dicono che la Città Proibita non ha intenzione di mollare la presa. Come la donazione di 10.000 mascherine al porto di Trieste, altro tassello chiave del piano di Xi, da parte di Cccc (China communication construction company), colosso cinese con cui il porto ha siglato un memorandum nel marzo del 2019.

Che il dossier-porti rimanga caldissimo sul piano geopolitico lo dimostra il faro acceso dalla diplomazia americana, proprio in questi giorni. Non sembra infatti casuale la visita dell’ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg al porto di Venezia. Questo lunedì il capo della missione diplomatica Usa, che di porti se ne intende, avendo presieduto niente meno che l’Autorità portuale di New York, ha incontrato il presidente dell’Autorità portuale di Venezia Pino Musolino.

Per discutere di “opportunità di commercio e investimenti”, spiega il profilo ufficiale di Palazzo Margherita. Ma non è da escludere che fra un affare e un altro ci sia stato spazio per un punto sulla presenza (e la road map) cinese nel porto. Dopotutto è già la seconda visita nel giro di pochi mesi che Eisenberg dedica all’ex Repubblica marinara. Il tour ha previsto un faccia a faccia con il sindaco Luigi Brugnaro e una tappa alla Vogada della rinascita, corteo di gondole sul Canal Grande per riaprire la città lagunare dopo tre mesi di quarantena.

A riprova dell’attenzione delle feluche statunitensi per le infrastrutture italiane e le mire estere c’è anche il recente incontro di Eisenberg con il ministro delle Infrastrutture del Pd Paola De Micheli. “Abbiamo approfondito il tema strategico del potenziamento delle infrastrutture – ha spiegato lei a margine della riunione – in particolare dei porti, degli aeroporti, della rete ferroviaria e dello sviluppo dell’intermodalità a sostegno della ripresa economica e della riduzione del gap tra Nord e Sud del Paese”. Un quadro per mettere a fuoco le occasioni di business delle aziende Usa in Italia, certo, ma anche per capire le mosse della concorrenza dal lontano Oriente.

Venezia non è che un pezzo del puzzle, e nemmeno il più importante. C’è il Porto di Trieste in cima al braccio italiano della Via della Seta. Lì su tutte spicca il colosso cinese CCCC, impegnato nella costruzione di banchine, piazzali e una grande piastra ferroviaria. Il terminale del capoluogo friuliano è da un pezzo sotto i riflettori americani. Lo scorso dicembre lo stesso Eisenberg, in un’eloquente intervista al Piccolo, aveva ricordato che gli investimenti di aziende cinesi mirano “principalmente ad esportare gli squilibri economici cinesi – sovrapproduzione industriale, eccesso di manodopera, grandi riserve di valuta estera – e a trasformare le sue incursioni economiche e finanziarie in influenza politica ed accesso strategico e militare”.

La lista dei porti italiani sotto la lente Usa è lunga, e coincide con quelli candidati a fare da sponda alla Silk Road cinese. Nel Tirreno, fra gli altri, Vado Ligure, Napoli, Salerno. Sull’altra sponda, in questo momento, c’è in cima il porto di Taranto, dove da tempo il Gruppo Ferretti vuole investire nell’area “Ex Belleli”. L’azionariato della storica azienda italiana parla benissimo mandarino (dal 2012 è partecipata all’86% dal gruppo statale Weichai Group), e questo ha suscitato più di un allarme nel mondo dell’intelligence e in quello diplomatico a stelle e strisce. Taranto, oltre a far da attracco alle navi della missione Ue in Libia Irini, ospita infatti una base Nato.

Non sorprende l’assertività del mondo diplomatico americano sulla nuova Via della Seta se inserita nel più ampio quadro di una presenza sempre più marcata degli Stati Uniti nel mare Adriatico e in particolare nei Balcani. Dalla Repubblica Ceca alla Serbia (il presidente Aleksandar Vucic ha fatto visita proprio questo lunedì al presidente Donald Trump, il giorno della sua rielezione), quelli che erano considerati tradizionali “fortini” dell’ex Celeste impero in Europa nonché del piano di investimenti infrastrutturali di Xi sono oggi al centro delle attenzioni della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Proprio quello che sta succedendo sull’altra riva.

Cina e porti italiani, la diplomazia Usa accende un faro. Ecco perché

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