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L’Iva è una delle imposte più evase in Italia. Si stima che il tasso di evasione e di erosione sia pari al 26% dell’intero ammontare dovuto. È, tuttavia, una imposta che fornisce all’Erario uno dei maggiori gettiti (circa 140 miliardi su poco più di 500 miliardi in totale). Negli ultimi anni è toccato all’imposta sui consumi il compito di garantire gli equilibri delle manovre di bilancio, concorrendo, insieme con le accise, al marchingegno delle che prevedevano un incremento della tassazione indiretta se i saldi non fossero corrisposti agli impegni assunti con l’Unione europea in sede di bilancio preventivo.

Anno dopo anno le clausole previste nel precedente bilancio venivano inserite nel nuovo, con l’aggiunta di qualche miliardo in più infilato dal governo in carica. Nella legge di bilancio per il 2020, dopo una campagna che accumunava tutti i partiti per i quali l’aumento dell’IVA (peraltro già operante dal 1° gennaio in forza della legge di bilancio per il 2019) avrebbe messo in grave difficoltà il Paese, il governo Conte 2 (la cui stessa formazione, con una differente maggioranza, era stata giustificata dalle forze politiche coinvolte in ragione della necessità di sterilizzare le clausole di salvaguardia), aveva trovato i 23 miliardi necessari a evitare che dal 1° gennaio scattassero gli aumenti previsti, a garanzia, già nella legge di bilancio per il 2019.

Quest’ operazione, però, non aveva risolto, una volta per tutte, il problema, dal momento che, per scongiurare l’aumento dell’imposta sui consumi, sarebbero serviti, oltre ai 23 miliardi nel 2020, di nuovo 20 miliardi nel 2021 e, secondo la Ragioneria di Stato, addirittura 27 miliardi nel 2022. Si era trattato, dunque, del rinvio, per motivi politici, di un intervento ineludibile, perché, prima o poi, sarebbe stato inevitabile affrontare una revisione strutturale dell’Iva, a meno di non trovarsi, qualunque governo, a fare i conti negli anni a venire con impostazioni della legge di bilancio già condizionate, in partenza, dal ‘’che fare?’’ sull’Iva. In tal caso sarebbe stato opportuno cambiare nome alla manovra definendola ‘’legge di sterilizzazione’’, anziché di bilancio. Poi, con la sospensione dei vincoli contabili da parte della Commissione europea, il governo ha trovato il modo di liberarsi dal cappio di ben 48 miliardi di clausole di stabilità, da sterilizzare come se si trattasse di una coppia di capponi in vista del Natale.

In quest’ambito quella di ridurre talune aliquote dell’Iva, che sta circolando in quegli ambienti governativi che vorrebbero gestire i conti pubblici col pallottoliere, è una proposta insensata che non serve a nulla. Le famiglie – in generale – contengono le spese, non perché siano prive di liquidità (il risparmio privato è aumentato nei 100 giorni del blackdown di 1,5 miliardi, mentre dei 22,3 miliardi dei Btp Italia, piazzati in quattro giorni ad un tasso dell’1,5%, ben 14 miliardi provenivano da soggetti privati contro gli 8 miliardi da parte degli investitori istituzionali). Le famiglie – giustamente – vogliono quelle sicurezze che dipendono da un ripristino della normalità, soprattutto della possibilità di procurarsi un reddito adeguato attraverso la continuità del lavoro.

L’idea che la ripresa riparta dai maggiori consumi interni è un’utopia che il Paese si porta appresso fin dall’erogazione degli 80 euro del governo Renzi. Ha ragione il Governatore Visco: la riforma fiscale non si fa a pezzi. Soprattutto, dovendo caricarsi di un onere stimato in una decina di miliardi, che meriterebbero una più utile destinazione. Poi qualsiasi riforma del fisco, organica e seria, non può non avere, tra i suoi presupposti, un riequilibrio tra la tassazione del reddito (le imposte dirette) e quella sui consumi. È una predica che i governi di ogni colore fanno da tempo, salvo poi invertire la marcia quando viene il momento di decidere. Chi propone la riduzione dell’Iva pregiudica anche gli assetti di una futura indispensabile riforma fiscale.

Ripartire dai consumi è un’utopia. Cazzola spiega perché

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