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Un fazzoletto di terra, al confine settentrionale della Siria. Il suo nome, Idlib, è uscito dalle cronache del mondo, causa la gravissima pandemia e le sue conseguenze ma anche la stanchezza per l’indecifrabile e ormai poco interessante conflitto siriano. L’idea che Assad abbia vinto la guerra ha tranquillizzato molti, incuranti che la lira siriana non abbia più valore, tanto che un salario mensile medio oggi vale circa 15 dollari. Non se ne dimentica però La Civiltà Cattolica che dedica il suo focus alla storia dimenticata di questo ultimo pezzo di guerra siriana: ultimo fino a quando si penserà che la soluzione militare abbia davvero risolto il conflitto, nonostante le spaccature per motivi economico-finanziari che riguardano il vertice del sistema-Assad.

L’articolo di padre Giovanni Sale ricostruisce con cura la tragedia di Idlib, del suo enorme valore strategico e umano, visto che lì la popolazione è balzata da 1 milione e mezzo a 3 milioni e mezzo di esseri umani. Sono gli sfollati interni, espulsi dai territori dove hanno sempre vissuto perché riconquistati da Assad. Padre Sale descrive con competenza la loro tragedia, con un milione di loro che nell’ultimo anno di feroci combattimenti sono fuggiti dalle bombe russe e i carri armati siriani che volevano riconquistare questo territorio per diversi motivi per arrivare davanti al muro di cemento armato costruito dai turchi al confine.

Ora c’è una tregua tra i russi che sostengono militarmente Assad e i turchi, che con loro pattugliano un tratto di territorio vicino al loro confine, il risultato conseguito da Erdogan con anni di guerra a sostegno dei jihadisti installati lì. Padre Sale afferma: “Per il momento sembra che la tregua regga. Tuttavia, secondo recenti informazioni, è sempre più frequentemente violata, e pare che Assad sia deciso a riprendere Idlib. Le democrazie occidentali hanno un’ultima chance in Siria per non essere accusate dal tribunale della storia di aver trascurato il destino di quel popolo: fare in modo che l’accordo sul cessate il fuoco, stipulato il 5 marzo, venga rispettato integralmente e, soprattutto, impegnarsi perché sia i russi sia i turchi, come pure gli altri soggetti belligeranti presenti nel territorio, ritirino gli armamenti e i soldati e diano ai siriani la possibilità di decidere da sé del proprio futuro, naturalmente con la supervisione della comunità internazionale. A quanto pare, però, tutto questo, almeno per il momento, non sembra realizzabile”.

Per capire perché siamo qui bisogna avere chiaro quale sia il valore strategico per i principali protagonisti di questo territorio siriano, dove si stabilì il primo autogoverno siriano dopo il 2011: “Per la Siria, si tratta di riesercitare la sovranità sul suo territorio, di sconfiggere definitivamente i suoi nemici più ostinati, che in questi anni di guerra sono stati asserragliati nella provincia: infatti, in base agli accordi di Soči, stipulati tra la Turchia e la Russia nel 2018, in questa zona sono stati trasferiti da altre parti della Siria numerosi jihadisti di diverso orientamento, insieme alle loro famiglie. Per Assad, inoltre, è importante occupare questo territorio, perché è limitrofo al “feudo alauita di famiglia”, nel quale vive il suo clan di origine e da cui provengono i suoi uomini più fidati, compresa la sua guardia del corpo”. E per la Russia? Anche l’obiettivo di Mosca è spiegato con precisione: “La Russia, da parte sua, è decisa a consolidare le vittorie ottenute e a salvaguardare le aree conquistate. Dopo cinque anni di guerra, Vladimir Putin vuole una vittoria per il suo protetto Assad a Idlib, l’ultima provincia controllata dai ribelli, e per le sue mire espansionistiche sulla regione. Vuole dichiarare un trionfo strategico epocale contro l’occidente, in particolare a spese degli Stati Uniti”. Qual è la strategia di Putin nella guerra siriana? Probabilmente quella di rafforzare il suo protagonismo nella scena politica internazionale, possibilmente con il riconoscimento degli Usa. Egli sa che la guerra in Siria deve finire al più presto; il suo Paese, infatti, è stremato dalla crisi economica e dal coronavirus; inoltre, come risulta dagli ultimi sondaggi, la sua popolarità in patria è ai minimi storici. Putin è consapevole che il futuro strategico della Russia non è il Medio Oriente, ma l’Europa, soprattutto l’Ucraina e gli altri Paesi limitrofi, e vuole evitare che questi cedano alle lusinghe statunitensi in ambito sia economico sia militare”.

Dall’altra parte del fronte c’è la Turchia, che ha rapporti stretti con i gruppi jihadisti che si sono installati a Idlib e che complici gli accordi di Soci li ha potuti gestire grazie ai trasferimenti convenuti dal resto della Siria. Gli obiettivi di Ankara padre Sale li spiega con precisione, partendo dal territorio, ma non fermandosi lì: “Per la Turchia, invece, si tratta di conservare la gestione di un importante avamposto in territorio siriano, per controllare, oltre i confini nazionali, anche la porzione di territorio occupata dai curdi e oggi amministrata dal Partito dell’unione democratica (Pyd), cioè il ramo siriano del Pkk, che Ankara considera un’organizzazione terroristica. Il presidente turco Recep Tayyp Erdoǧan sa che perdere questo territorio significherebbe per lui essere escluso poi dalle trattative di pace e non avere alcun ruolo nella ricomposizione della Siria. Questo territorio al momento è occupato per il 70% da Assad (per mezzo della potente aviazione russa), per il resto dai curdi (armati dagli Usa) e solo in piccola parte dai turchi, che agiscono in esso attraverso un contingente arabo. La Turchia, insomma, non è disposta a rinunciare ai propri interessi nella zona di confine, anche se ciò comporta l’avvio di un’operazione militare, come di fatto è avvenuto”.

I protagonisti di questo ultimo conflitto, che si accavalla con i timori che arrivi tra i profughi il Covid-19, sono loro tre. Ma è sul fronte turco che padre Giovanni Sale fa due importanti sottolineature che spiegano molto di Erdogan e della sua politica estera a fine interni. Il nazionalismo sempre più importante per il leader turco è alla base di entrambe. La prima riguarda il bisogno di apparire più nazionalista di Ataturk, realizzando quello che allora non riuscì. Quando Erdogan ha lanciato la sua offensiva a Idlib – Scudo di Primavera – per respingere l’avanzata di Assad, non pensava tanto ai siriani, quanto all’importanza di mantenere il controllo di territori al di là dei suoi confini per guardare oltre: “L’operazione ‘Scudo di primavera’ permette alle Forze armate turche di fare un passo avanti notevole verso la linea Aleppo-Mosul. Si tratta del confine della Turchia delineato nel gennaio 1920 dall’ultimo Parlamento ottomano, dove i kemalisti avevano la maggioranza. Il cosiddetto ‘Patto nazionale’ prevedeva che la nuova Repubblica di Turchia su quel confine avrebbe inglobato le città di Aleppo, Mosul, Arbil e Kirkuk: città che, invece, in sede negoziale, la comunità internazionale assegnò alla Siria. Per Erdoǧan oggi è importante esercitare il controllo sulla città di Aleppo, che si trova a pochi chilometri dalla provincia di Idlib”. Tutto questo con il noto neo-ottomanesimo ha poco a che fare, piuttosto con un nazionalismo radicale.

Qui occorre fare un inciso: quando Erdogan cercò il sostegno europeo alla sua guerra di Idlib, per ottenerlo  lasciò muoversi verso la Grecia 40mila profughi siriani. L’Europa rispose indignata che non si usano i disperati per fare pressioni politiche, ottenere consensi ai propri piani politici. “La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha ringraziato la Grecia per aver fatto da ‘scudo’ contro l’immigrazione, e ha assicurato che l’agenzia Frontex – l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne dell’Ue – avrebbe inviato uomini e mezzi per affrontare la situazione. Ma non ha precisato se e come sarebbero stati ricollocati gli oltre 40mila profughi che si trovavano nelle isole greche in condizioni disumane inaccettabili”.

Torniamo a Erdogan, c’è il secondo elemento che emerge dalla ricostruzione di padre Sale da riferire. È  questo: quando Erdogan è andato a negoziare il cessate il fuoco a Idlib, che traballa, oltre ad assicurarsi un piede ancora dentro Idlib, ha sottoposto un’idea a Putin: “In sede negoziale egli ha proposto a Putin di ricostruire insieme la Siria con i proventi del petrolio e del gas della Gazīra, attualmente incamerati dal Pkk”. Dunque gli eserciti di mezzo mondo hanno devastato la Siria ma il conto lo dovrebbero pagare i siriani, con risorse che certamente non basterebbero a un’impresa enorme.

Dunque cosa succederà nel futuro di questo territorio disperato, sospeso tra i calcoli di Erdogan e dell’alleanza Putin-Assad che lo ha bombardato senza mai risparmiare obiettivi civili? La conclusione è questa: “Si deve anche tener presente che negli ultimi anni i due Paesi hanno rafforzato i loro legami economici e commerciali, collaborando sempre più nel settore energetico e in quello militare. Mosca è il secondo partner commerciale di Ankara. Inoltre, la Russia vende alla Turchia cereali e gas, e il nuovo gasdotto TurkStream le permetterà di esportare il suo ‘oro blu’ in Europa aggirando l’Ucraina. Nonostante la Turchia faccia parte della Nato, Mosca vende ad Ankara i suoi missili S-400 e sta realizzando nel suo territorio la prima centrale nucleare turca. In questa situazione, a nessuna delle due parti conviene ‘rischiare’ per Idlib”.

Idlib e i valori strategici e umani della Siria. La ricostruzione di Civiltà Cattolica

Un fazzoletto di terra, al confine settentrionale della Siria. Il suo nome, Idlib, è uscito dalle cronache del mondo, causa la gravissima pandemia e le sue conseguenze ma anche la stanchezza per l’indecifrabile e ormai poco interessante conflitto siriano. L’idea che Assad abbia vinto la guerra ha tranquillizzato molti, incuranti che la lira siriana non abbia più valore, tanto che…

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