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“La Turchia può avere delle politiche sgradite tanto a noi quanto a buona parte della comunità internazionale, ma agiamo di conseguenza sapendo che la Turchia non è al di fuori di quella che, al momento, è l’unica alleanza capace di garantire sicurezza e cooperazione”. Questa la tesi di Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation che affida a Formiche.net un più ampio ragionamento sugli equilibri tra Mediterraneo e Bosforo, anche alla luce di due scenari primari come Libia e Balcani.

Come cambia, se cambia, la geopolitica italiana dopo la liberazione di Silvia Romano per il tramite di Ankara?

Non è cambiata ora, perché è già cambiata da tempo. La liberazione per i buoni uffici della Turchia indica che da quel dì abbiamo perso la presenza importante in quel Paese: il che è scandaloso, ma figlio di una mentalità che risale almeno a tre governi fa, quando si sosteneva l’inutilità di occuparci di faccende così lontane da casa nostra come l’Afghanistan. Mi chiedo come si costruisca il concetto, mondiale, di vicinanza o lontananza quando si parla di politica estera. Il Covid avrebbe dovuto dimostrare un’evidenza nota già prima della pandemia, ma evidentemente così non è stato. Chiunque è avvisato degli affari del mondo, proprio in virtù della globalizzazione, sa che non esiste un luogo vicino ed uno lontano. È tutto vicino: bisogna scegliere quale sia quello maggiormente prioritario.

A Roma conviene essere alleata o concorrente di un player con cui abbiamo interessi divergenti, ad esempio in Libia o a Cipro?

Vorrei capire sulla base di cosa dovremmo essere alleati, al di là del fatto che lo siamo già in ambito Nato. Se è vera come è vera la base di alleanza che abbiamo nella Nato allora normalmente dovremmo avere posizioni ragionevolmente compatibili anche in altri dossier. So benissimo che non è così in riferimento ad una serie di altri paesi, ma dovremmo almeno valutare dove siamo concorrenti. Anche sulla concorrenza dobbiamo capire che è reale come l’alleanza.

Quindi?

In realtà abbiamo già definito in Libia una posizione, appoggiando il governo legittimamente riconosciuto dall’Onu. La differenza tra allora e ora, è che dovremmo deciderci a dare sostanza a delle posizioni declaratorie. Questa la vera sostanza. In un momento dove, purtroppo, parlano le armi è difficile mediare. La diplomazia ha il suo spazio preciso e la mediazione funziona quando si è forti come mediatori, non quando si offre solo di mediare, perché altrimenti si corre il rischio di venire ignorati da chi spara di più. E’comunque una storia vecchia, funziona così dai tempi della guerra nella ex Jugoslavia, a voler avere la memoria cortissima.

Al netto della postura di Erdogan crede che l’Italia non debba rinunciare a considerarlo un alleato strategico?

La Turchia è un alleato perché è nella Nato: questo è un passaggio estremamente chiaro su cui è bene avere le idee chiare. Dopo di che il suo comportamento è molto disinvolto e ha bisogno di risposte ferme e immediate. Il fatto che Ankara sostenga con le armi Serraj dovrebbe farci trovare d’accordo sullo stesso fronte. A quanto pare non è così. Dobbiamo fare in modo che quando si entra nel merito del dossier energetico, comune a tutti, ci sia una capacità di risposta diplomatica ferma così come quando altri Paesi rivendicano zone economiche esclusive senza tenere conto delle nostre. La Turchia può avere delle politiche sgradite tanto a noi quanto a buona parte della comunità internazionale, ma agiamo di conseguenza sapendo che la Turchia non è al di fuori di quella che, al momento, è l’unica alleanza capace di garantire sicurezza e cooperazione collettiva.

In Libia pensa che il governo riconosciuto dall’Onu possa ottenere vantaggi dall’asse Serraj-Erdogan? E l’Italia quale schema sta seguendo?

L’Italia sta rischiando di perdere due fronti. Il primo è un rapporto preferenziale con un governo libico: lo vantavamo con Gheddafi e non vedo perché dovremmo perderlo oggi. Potremmo averlo anche con un nuovo governo che riuscisse a garantire l’unità nazionale dopo la disgraziata guerra civile. Il secondo è quello in Somalia, dove avevamo delle posizioni prima della guerra civile che per me è incomprensibile perdere. Aggiungo il dato sugli interessi petroliferi: è chiaro che non vedo quali garanzie possa dare il generale Khalifa Haftar rispetto ai progetti dell’Eni, che sono quelli dell’Italia.

Ma Parigi dice che…

Sono ben disposto a credere agli amici francesi quando dicono che non ci sono interessi conflittuali energetici, ma poi non ho visto Haftar dare uguali garanzie, ufficiali o ufficiose, ai nostri legittimi interessi nazionali. Non possiamo permettere che altri, intervenendo in modo fattivo, si appuntino al petto la medaglia dei salvatori di Tripoli. Questo metteranno i turchi sul piatto della bilancia e sarà una rivendicazione vera. Bisogna capire che le posizioni non nascono dal nulla, specialmente durante una guerra civile.

Nei Balcani e in Africa la Turchia è riuscita a legittimarsi più e meglio dell’Italia?

Devo dire che l’Italia nei Balcani è legittimata attraverso il comando K-For, ma non basta: occorre una continuità di impegno politico perché le cose non vanno avanti da sé. Abbiamo anche investito nei Balcani e ora è necessario ottenere dei ritorni da questa presenza. Ricordiamo che i generali italiani nella K-For fanno la differenza in modo piuttosto netto su come funziona la missione perché dotati di una maggiore capacità di comprensione di ambienti complessi.

twitter@FDepalo

Dalla Libia ai Balcani, quale relazione con la Turchia? Parla Alessandro Politi

“La Turchia può avere delle politiche sgradite tanto a noi quanto a buona parte della comunità internazionale, ma agiamo di conseguenza sapendo che la Turchia non è al di fuori di quella che, al momento, è l'unica alleanza capace di garantire sicurezza e cooperazione”. Questa la tesi di Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation che affida a Formiche.net…

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