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Silvia Romano è finalmente tornata a casa e nella festa più simbolica: la festa della mamma. Non mi tolgo dagli occhi quello scatto, l’esplosione di gioia, di lacrime, di quella madre che per 18 mesi ha sofferto l’angoscia di non sapere cosa ne fosse stato della figlia. E le lacrime di quella figlia che è tornata, cambiata, a casa.

Cambiata, sì. Perché quello che è accaduto in quei 18 mesi di prigionia, nelle mani di un gruppo terroristico, non lo so io, non lo sapete voi, lo sa solo Silvia. Non è scesa dall’aereo con una maglietta ed i jeans, ma con un abito tradizionale somalo. Si è convertita all’Islam. Così ha detto. E ha aggiunto “volontariamente”.

La questione è complessa. Certo, chi non avrà pensato “volontariamente un corno”. Tutte e tutti, forse, potranno aver pensato che è stata costretta e che è il frutto di una sorta di lavaggio del cervello. Potrebbe esserlo. Forse non ne è consapevole nemmeno lei. Ma di questo non se ne occupano i giornalisti, né i commentatori della domenica su twitter o facebook. Se ne occuperà Silvia con la sua ritrovata famiglia, con l’assistenza medica, psicologia che viene offerta in questi casi, con le indagini della procura competente.

Se i dubbi sono leciti. Ciò che non è lecito è lo spettacolo vergognoso e indecente a cui stiamo assistendo. Silvia Romano è stata offesa, minacciata e aggredita verbalmente sui social con ogni genere ci accusa. C’è chi arriva a dire che non avremmo dovuto riportarla, perché è “tornata islamica”. Chi la dipinge come una “traditrice” e chi come una sorta di agente segreto in agguato, tra di noi.

Qualcuno è arrivato a dire che è come vedere un ebreo liberato da Auschwitz tornare fiero a casa con la divisa dei suoi aguzzini. Sì, proprio così, avete letto bene. Un paragone orribile e sbagliato. Per tante questioni. Ma torno a Silvia Romano.

Giubilo e festa alla notizia della sua liberazione – non da tutti probabilmente, visto che già prima diversi esponenti politici, della destra nazionalista e xenofoba di casa nostra, avevano detto “che se l’era cercata” – ma poi, quando è apparsa all’uscita dell’aereo con l’abito tradizionale somalo, da convertita all’Islam. Il giubilo si è rotto. Qualcuno ha reagito, inconsapevolmente o consapevolmente, con un senso di disincanto e di fastidio. Per alcuni questo è stato poi odio, rabbia e voglia di vendetta: “4 milioni di euro per salvare questa qua”.

Siamo alle reazioni più elementari di una società tribale che nasconde dentro di sé sacche di ignoranza, xenofobia e violenza abbastanza consistenti. Il sottobosco del pensiero autoritario: “aiutare e sostenere solo chi è come me, o meglio, come io mi aspetto che sia e debba essere”. Così, qualcuno avrebbe voluto preventivamente sapere, forse, se sarebbe tornata in maglietta e jeans, per decidere se salvarla o meno. E poi, hanno il coragio di professarsi “veri” cristiani in casa nostra, ed ergersi a difensori dei valori del Cristianesimo. Il problema, è che non li conoscono questi valori. Per queste sacche è solo questione d’apparenza.

Sono felice che Silvia Romano sia tornata a casa. Sono felice per quella madre che ha nella sua festa ricevuto il regalo più bello e impensato. A Silvia la mia solidarietà e comprensione e la speranza che possa vivere la sua vita in serenità e tranquillità. Abbiamo messo la scorta a una donna sopravvissuta ad Auschwitz ed oggi ad una cooperante di 25 anni tornata dopo 18 mesi di rapimento.

Concludo con una domanda e un invito: è questa la società che vogliamo (continuare) ad essere? Spero proprio di no.

Sulla vicenda di Silvia Romano

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