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Il vice premier libico, Ahmed Maiteeg, ha affermato che l’operazione “Irini” dell’Unione europea per monitorare l’embargo delle armi delle Nazioni Unite sulla Libia “non è sufficiente e trascura il monitoraggio delle frontiere aeree, marittime e terrestri orientali della Libia”. “L’Unione europea non ha consultato il nostro governo prima di prendere la decisione di avviare l’operazione che si affaccia sui confini orientali”, avrebbe aggiunto durante un incontro con l’ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Buccino. Lo scrive l’ufficio informazioni del Gna in una nota ripresa dall’Agenzia Nova.

È un’uscita pubblica piuttosto severa, che riguarda sia l’Italia che l’Europa, due realtà connesse che dal Governo di accordo nazionale, Gna, vengono viste come partner, ma spesso criticate per la timida consistenza dell’azione libica. Le parole di Maiteeg, politico di Misurata con ottime entrature nel mondo occidentale (da Washington a Roma, e figura importante per il futuro del Paese, come analizzava Pierferdinando Casini su queste colonne), arrivano a pochi giorni di distanza dal tentativo di colpo di Stato di Khalifa Haftar. Il capo miliziano della Cirenaica – che dal 4 aprile del 2019 sta tentando di rovesciare il governo internazionalmente riconosciuto e conquistare Tripoli – ha provato l‘all-in lunedì 27 aprile, quando con un discorso televisivo ha annunciato di non riconoscere più il perimetro dell’accordo libico, Lpa, stretto dall’Onu nel 2015.

Gli sponsor principali di Haftar, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, hanno rilasciato dichiarazioni ambigue, senza fornire aperto sostegno alla decisione del wannabe-rais, ma chiaramente schierate al suo lato. La Russia, che aiuta Haftar in forma discreta (con dei contractor sul campo) ha invece diffuso una nota critica dal ministero degli Esteri. Anche la Francia, un paese che ha avuto posizioni ambigue in Libia (sostenendo pubblicamente il Gna e clandestinamente Haftar), ha dichiarato che certe “decisioni unilaterali” sono inutili.

E pure l’Italia, seppure in forma non troppo severa, ha chiesto il ritorno a una linea di colloquio politico – che non è in questo momento l’obiettivo diretto di Haftar. Sull’argomento sono entrati anche gli Stati Uniti, che si sono detti “rammaricati” della decisione haftariana – a parlare è stata l’ambasciata libica, con sede a Tunisi, che negli ultimi sei mesi è stata piuttosto attiva sul lato tripolino. Molto più duri Turchia e Qatar, che sono i veri sostenitori militari di Tripoli e si muovono nel conflitto libico per interessi proxy contro Abu Dhabi, Cairo e Riad – sullo sfondo le divisioni intra-sunnismo.

In questo quadro, diventa interessante quello che scrive Stefano Marcuzzi del Carnegie Europe: l’approccio europeo alla crisi, fatto di sostegno a distanza, presenza soft, aiuti umanitari, è stato del tutto eclissato dall’hard power che altri attori esterni sono stati disposti a investire sui due fronti. Per Marcuzzi esiste una nuova finestra di opportunità per l’azione dell’Ue, legata alla pandemia globale, che ha portato alla chiusura dei confini: questo probabilmente farà diminuire la capacità degli sponsor esterni di inviare armamenti. La possibilità c’è, a patto che l’Europa decida di aumentare il proprio coinvolgimento: un metodo che potrebbe rafforzare la sua capacità negoziale.

Anche Marcuzzi, come Maiteeg, legge la missione Irini come insufficiente. C’è una questione di fondo: come già più volte sottolineato su Formiche.net, il rischio è che nella rete dei controlli finiscano più i rifornimenti a Tripoli (che solitamente arrivano via mare, anche se la Turchia ha già cambiato modalità) che quelli che rinforzano Haftar – inviati dagli emiratini per via aerea, con scalo in Egitto e trasferimento via terra per il permeabile confine della Cirenaica. È a questo che il vicepremier libico si riferisce con la dichiarazione virgolettata in apertura di questo articolo. Marcuzzi evidenzia anche che manca un sistema legale deciso – di naming & shaming – per punire eventuali violazioni.

Il ricercatore del think tank di Washington suggerisce all’Ue di inviare una presenza boots-on-the-ground per controllare il conflitto, come proposto dal primo ministro britannico, Boris Johnson, durante la conferenza di Berlino a gennaio in cui si è deciso pun flebile e ultra-violato cessate il fuoco. L’idea ai tempi non dispiaceva all’Italia, e il 22 aprile la Germania ha fatto un passo in avanti, proponendo di mettere a disposizione 300 militari per implementare la missione Irini.

“Tutto ciò (la missione Irini, implementata da una presenza a terra, e la congiuntura dell’epidemia. Ndr) rappresenta un’opportunità strategica per l’UE di togliere l’iniziativa dalla Russia e dalla Turchia. Se l’Europa fosse unita, potrebbero seguire anche gli Stati Uniti”, spiega Marcuzzi.

Il problema tecnico è rappresentato dal conflitto stesso: i soldati europei potrebbero essere visti come ostili dalle milizie che rappresentano le componenti militari su entrambi i lati del conflitto.

Quello politico dai meccanismi decisionali dell’Ue, ossia dalle volontà di compiere o meno con un passo del genere, anche e soprattutto in un momento come questo. Come risponderebbero le opinioni pubbliche dei Paesi membri all’annuncio di una missione militarizzata di stabilizzazione della Libia nei giorni in cui la crisi prodotta dall’epidemia mostra tutta la sua ferocia?

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