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Come raccontare la situazione davanti alla crisi economica e sociale che l’emergenza sanitaria prodotta dal coronavirus sta creando è un aspetto determinante per i governi. Un elemento centrale per la tenuta interna e per il mantenimento — e/o la ricostruzione — di un’immagine internazionale. Per questo si parla spesso di info-war, ossia la guerra informativa fatta di messaggi diretti e laterali, soft power più o meno affilato, azioni più pesanti sul piano della disinformazione e dello screditare i rivali, propaganda, censure, attività ibride.

Specialità delle active measures russe, su cui Mosca anche in questo caso non s’è tirata indietro. Ieri il Cremlino ha comunicato di aver avviato la sperimentazione umana per un vaccino attraverso un laboratorio governativo, inserendosi di fatto nella competizione globale per ottenerne l’arma strategica che permetterà una normalizzazione del presente e veicolerà le dinamiche future.

Non è chiaro a che punto siano i russi su questi studi scientifici sbandierati, ma quello che invece è più probabile è che Mosca stia minimizzando sulla situazione dei contagiati interni. Secondo molti esperti, infatti, è quasi impossibile che in Russia ci siano soltanto 147 casi positivi, un solo morto, come riporta il conteggio ufficiale al 19 marzo. È una questione di numeri, in Russia ci sono 150 milioni di abitanti, ma anche di struttura del Paese.

C’è innanzitutto un aspetto tecnico: ci sono ampie zone in cui potrebbero non essere stati effettuati test, sebbene il Rospotrebnadzor dice di averne fatti oltre centomila — il che significa che ci sono circa lo 0.1 per cento di casi positivi, la percentuale più bassa del mondo. Rospotrebnadzor è l’agenzia governativa che ieri ha annunciato le evoluzioni sul vaccino. Ma non solo: in ampie zone rurali della Russia potrebbero mancare proprio gli elementi per riconoscere la Covid-19 da altre sindromi simili — anche sulle persone decedute.

Il tessuto economico-commerciale russo ha inoltre moltissime connessioni a livello globale, e ha un fittissimo interscambio con la Cina — in particolare con l’Hubei, la provincia dove si trova Wuhan, l’area da cui tutto è partito (e più colpita), che è anche il cuore produttivo cinese da cui si dipanano enormi linee di esportazione. Ma la Russia ha anche relazioni strette con l’Iran, in fiamme per la pandemia (sebbene anche lì i numeri siano zuccherati dal regime prima di passare pubblici) e l’Europa — che ha migliaia di casi distribuiti in vari Paesi.

Per rispondere alla domanda “com’è possibile che i russi abbiano avuto così pochi contagiati?” c’è quindi anche un secondo aspetto da valutare. Vladimir Putin è in una fase delicata del suo potere, che sta proiettando oltre il 2024 — quando dovrebbe scadere l’attuale mandato — attraverso modifiche costituzionali che dovrebbero incontrare il consenso dei cittadini e non smottare in ulteriori proteste contro quello che di fatto trasformerà il potere putiniano in un autoritarismo a vita. Putin dice che tutto “è sotto controllo”, perché vuol dimostrare ai russi che il suo paese — più che il loro — è più forte della pandemia, resiste alla malattia che colpisce il mondo, e anzi si proietta nella competizione globale per trovare una via per risolverla.

In Russia, sul coronavirus, in effetti non manca la disinformatia. Una stazione televisiva ha affermato che si tratta di un’arma biologica statunitense, per esempio. Un sito di notizie pro-Cremlino che le aziende farmaceutiche occidentali avevano esagerato la pandemia. Ancora, profili fake spingono “la disinformazione sul coronavirus in inglese, spagnolo, italiano, tedesco e francese”, secondo un secondo rapporto interno dell’European External Action Service passato di mano in mano tra i giornalisti che seguono la questione dopo che il Financial Times ne aveva pubblicato stralci in esclusiva.

 

In Russia ecco come si declina l’arte della disinformatia sul coronavirus

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