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Sono trascorsi esattamente trent’anni e ad oggi aderiscono a quella convenzione 194 Stati ad eccezione degli Stati Uniti. L’Italia l’ha ratificata il 27 maggio 1991 con la legge 176 e l’ultimo Paese è stata la Somalia. La Convenzione è uno strumento giuridico e un riferimento a ogni sforzo compiuto in cinquant’anni di difesa dei diritti dei bambini; è composta da 54 articoli. Nonostante i progressi degli ultimi 30 anni, i diritti dei bambini continuano ad essere a rischio in tutto il mondo. Proprio per questo, tutelare i diritti delle categorie più vulnerabili, quali i bambini, è uno dei passi fondamentali per la realizzazione dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Solo mettendo al centro i diritti dei più piccoli sarà possibile lasciare un mondo migliore alle generazioni che verranno.

Nel preambolo della Convenzione viene spiegata la scelta di dedicare uno specifico trattato sui diritti dell’infanzia: la necessità di assicurare tutele e cure speciali e di proteggere la vulnerabilità dei bambini, garantendo loro un’adeguata protezione giuridica, sia prima sia dopo la nascita. La Convenzione cerca  di garantire al fanciullo il rispetto dei suoi diritti umani. Viene enunciato il principio di non discriminazione, secondo cui ogni bambino deve godere degli stessi diritti, senza eccezioni dovute a razza, colore, sesso, lingua, religione, opinioni politiche, stato sociale, origini, condizioni economiche.

Inoltre, la Convenzione afferma che ogni bambino, sin dalla nascita, deve avere diritto a un nome e a una nazionalità e beneficiare della sicurezza sociale, in modo da crescere e svilupparsi in modo sano. Viene sancito il diritto fondamentale all’educazione, che almeno a livello elementare dovrebbe essere gratuita ed obbligatoria, ma anche all’amore e alla comprensione. Viene sottolineata, poi, la necessità di prendere in considerazione sempre l’opinione e il punto di vista dei bambini quando si prendono decisioni che li riguardano. Per garantire il rispetto dei diritti enunciati nella Convenzione, nella parte seconda è stato istituito un Comitato Onu sui Diritti dell’Infanzia. Il Comitato ha il compito di esaminare i progressi dei vari Stati nella messa in pratica degli obblighi sanciti dalla Convenzione ed esamina i rapporti che ogni Stato ogni cinque anni deve produrre. Le violazioni più gravi vengono commesse nei contesti di conflitto. Secondo le stime di Save the Children, sono 420 milioni i bambini che oggi vivono in zone di guerra. In particolare, l’Asia è il continente dove il maggior numero di bambini – circa 195 milioni – vive in aree di conflitto, seguita dall’Africa – 152 milioni. Un dato preoccupante riguarda il Medio Oriente: il 40 % dei bambini conosce la guerra fin dalla nascita. L’Ufficio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per l’infanzia e i conflitti armati ha pubblicato un rapporto, prima nel 2009, in seguito nel 2013, che analizza le sei più gravi violazioni commesse a danno dei bambini durante i conflitti armati. Tali violazioni, identificate dal Consiglio di Sicurezza, sono: il reclutamento e l’uso dei bambini soldato, l’uccisione e la mutilazione, la violenza sessuale, gli attacchi a scuole e ospedali, i rapimenti e la negazione dell’accesso agli aiuti umanitari. Anche la  salute dei bambini, e di conseguenza la vita, è continuamente a rischio, in particolare nei contesti dove l’accesso alle cure non è garantito.

Lo stato di salute dei bambini e degli adolescenti è influenzato dal contesto sociale in cui vivono e per garantire una piena ed equa realizzazione del diritto alla salute è opportuno intervenire contemporaneamente su più fronti: istruzionewelfare e occupazione. I bambini subiscono molte altre forme di violenza e sfruttamento, da quello sessuale a quello lavorativo e alla pratica dei matrimoni forzati. A causa delle violazioni, vengono privati della loro infanzia, del gioco, della spensieratezza, dell’istruzione e della libertà di poter essere bambini. E queste violenze avvengono quotidianamente, non solo nelle più remote aree del mondo, ma anche nei contesti più vicini a noi. Tra alcune delle popolazioni straniere residenti in Italia, si registra un alto numero di matrimoni contratti al di sotto dei 18 anni; in particolare, si fa riferimento alle comunità brasiliana (36%), senegalese (33%), bengalese (32%) pakistana (24%). Grazie però al lavoro di molte associazioni e di alcuni parlamentari, oggi è stato colmato un vuoto normativo e introdotta una nuova fattispecie di reato in Italia.  L’articolo 7 della legge “Codice rosso” (L. 19 luglio 2019, n. 69. Modifiche al codice penale, al codice di  procedura  penale  e  altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere) pubblicata  in Gazzetta Ufficiale introduce nel codice penale il reato di “costrizione o induzione al matrimonio”. Oltre a punire chi costringe una persona a sposarsi “con violenza o minaccia”, viene punito chi la induce a sposarsi “approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di  inferiorità psichica o di necessità”, “con abuso delle  relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia”.

La pena va da uno a cinque anni di reclusione, ma aumenta se la vittima è un minore e arriva fino a sette anni se ha meno di quattordici anni. Le nuove norme non si applicano solo a matrimoni forzati in Italia, ma anche quando il reato è commesso all’estero da o ai danni di cittadini italiani o stranieri residenti in Italia. In questo modo sarà possibile anche tutelare le nuove generazioni riportate nei Paesi d’origine (spesso con la scusa delle vacanze estive) e costrette o indotte lì a sposare i prescelti dalle famiglie.

migranti, minori

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