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Dopo quattro mesi di lotta e manovre, l’epilogo di quest’ennesima crisi politica in Spagna sembra quello atteso: il ritorno alle urne. L’esito del confronto tra le diverse formazioni politiche – con la mediazione del Re Filippo VI – si è rivelato un fallimento. Il socialista Pedro Sánchez non ha ceduto alle richieste, rifiutando di presentarsi senza i numeri necessari per l’investitura.

Quelle del 10 novembre saranno le seconde elezioni in sette mesi e le quarte in quattro anni per gli spagnoli, esausti dall’esercizio democratico a vuoto. “Un caso inedito in Europa che segna il fallimento di una generazione di politici”, scrive il quotidiano El País, prima di fare l’elenco dei responsabili.

I tre grandi partiti spagnoli – Partito Popolare, Podemos e Ciudadanos – puntano il dito contro il Partito Socialista Operaio Spagnolo. Dall’inizio della crisi Sánchez aveva intenzione di tornare al voto. Sánchez, invece, accusa il partito di Pablo Iglesias per avere “bloccato l’investitura di un socialista per la quarta volta”. Senza mostrare un po’ di sana autocritica, Sánchez ha lanciato la palla agli elettori, con l’appello che parlino più chiaro di quanto hanno fatto ad aprile, permettendogli di avere la maggioranza piena.

Ieri sera, dopo una giornata di consultazioni, il Re ha annunciato con un comunicato che, nonostante la scadenza del 23 settembre, non ci sono sostenitori sufficienti per convocare ad una sessione di investitura. In questi ultimi giorni la situazione non ha accennato a cambiare, per cui il ritorno alle urne è inevitabile. Le elezioni erano praticamente decise settimane fa. Anche se si sperava nell’approvazione di Pablo Iglesias per un’investitura senza accordo. Lui però non ha accettato.

L’ultima mossa l’ha fatta il leader di Ciudadanos, Albert Rivera, che aveva offerto un voto di astensione in cambio della rottura del governo di Navarra e la promessa di liberare i “presos del procés”, gli ex consiglieri della Catalogna che sono in carcere. Sánchez ha respinto l’offerta. C’è chi sostiene che Rivera non ha mai voluto negoziare veramente con Sánchez e tutto era parte di una strategia per avere più carte da giocare in campagna elettorale.

“Non dobbiamo creare false aspettative alla gente […] Abbiamo tentato tutte le strade, ma è stato impossibile”, ha dichiarato Sánchez ieri sera dal palazzo di governo de La Moncloa. Il socialista ha accusato Pablo Iglesias di Podemos di pretendere in Spagna “due governi in uno”, con la proposta di coalizione di esecutivo: “Sfortunatamente due forze conservatrici e una di sinistra hanno preferito bloccare la voce delle urbe”.

Tra l’accordo di alleanza e il nuovo voto, il nucleo duro dei socialisti aveva scelto da luglio la seconda opzione. Sostengono che la Spagna ha bisogno di un governo forte per affrontare tre sfide importanti che sono alle porte: il rallentamento della crescita economica, la crisi separatista della Catalogna e l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Salvo un miracolo dell’ultimo minuto, gli spagnoli si avviano ad una nuova campagna elettorale (in realtà iniziata nel 2015 e ancora infinita).

E chi vincerà questa volta? Sánchez è fiducioso del consenso elettorale. Secondo il Centro di Ricerche Sociologiche, il Psoe vincerebbe le elezioni con il 29,7% dei voti, seguito dal Partito Popolare con l’11,6%; Podemos con il 8,9%, Ciudadanos 7,4% e Vox 3,3%.

Alcuni analisti credono che la posizione del Psoe migliorerà in questi pochi giorni di campagna, mentre i popolari si asterranno. Tutte ipotesi, nessuna certezza. Dopo la scossa di ieri lo scenario politico della Spagna è ancora più complesso e incerto.

La Spagna (di nuovo) al voto, il fallimento di una generazione politica

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