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La cancellazione unilaterale, da parte di Facebook, di centinaia di profili e pagine riferiti alle organizzazioni di estrema destra CasaPound e Forza Nuova dimostra ancora una volta eloquentemente che il social network fondato da Mark Zuckerberg ha optato ormai per decise scelte di campo politiche, venendo meno alla sua funzione di contenitore tendenzialmente universalistico. Tanto più, in quanto la censura non è stata motivata dai portavoce dell’azienda con atti illeciti o incitamento alla violenza, né con l’uso di simboli fascisti, ma in base alla classificazione di quei movimenti come intrinsecamente discriminatori, poiché essi a loro dire “attaccano gli altri sulla base di chi sono”.

In pratica, tradotto dal linguaggio “politicalcorrettista”, Cpi e Fn sono stati banditi per aver espresso opinioni contrarie a quelli che un certo progressismo globalista considera diritti fondamentali di categorie “protette”: in particolare in tema di immigrazione e gender. Ma si tratta di opinioni non esclusive di quelle organizzazioni, bensì largamente condivise dall’opinione pubblica conservatrice in giro per il mondo. Metterle al bando dal dibattito sui social, magari cominciando da soggetti impopolari come i “fascisti del terzo millennio”, significa potenzialmente snaturare del tutto la dialettica democratica contemporanea.

È vero: Facebook è un mezzo di comunicazione privato, ha le sue regole interne, e formalmente può ammettere o escludere chi vuole a suo piacimento. Ma non nascondiamoci dietro un dito. Esso è da anni il più grande mezzo di comunicazione di massa del pianeta, e per il suo filtro passa una percentuale sempre più alta dell’informazione. Il conglomerato tra Fb (+ Messenger), Instagram e Whatsapp – i tre grandi social media concentrati nelle mani di Mark Zuckerberg – gestirà notizie, dati, contatti, gusti, di 2,7 miliardi di persone. Questo autentico imperatore dei nuovi media svolge dunque, di fatto, un ruolo pubblico, civile e politico, in tutti i paesi nei quali opera.

Come per tutte le aziende hi tech, la natura “ibrida” del social rende estremamente difficile ingabbiarlo in un sistema di norme nazionali e internazionali. Né sarebbe sostenibile – meno che mai consigliabile – in Paesi liberaldemocratici sostituire quelli privati con social media “di Stato”. Occorre però, ormai, porsi necessariamente il problema di come costringere i colossi della comunicazione digitale a rispettare integralmente il diritto di espressione e il pluralismo.

Purtroppo questa preoccupazione pare estranea a gran parte del mondo politico liberal occidentale, che al contrario tende a condividere l’approccio repressivo adottato sempre più spesso da Fb. E lo stesso atteggiamento abbiamo ritrovato anche nelle reazioni della sinistra italiana alla censura contro Cpi e Fn: non richieste di rispetto della libertà di espressione, ma plauso al bando, e addirittura invocazioni di scioglimento per legge delle organizzazioni colpite.

È la prova che il problema va ben oltre i social media, e risiede piuttosto in primo luogo nella cultura politica oggi egemone tra le élites del “primo mondo”, di cui Zuckerberg e altri magnati digitali in misura crescente si ergono a rappresentanti.

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