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Una delegazione statunitense di altissimo livello arriverà oggi ad Ankara per un contatto diretto sulla crisi del nord siriano. Il gruppo di alti funzionari Usa sarà guidato dal vicepresidente Mike Pence — che domani avrà un incontro con il capo di stato turco, Recep Tayyp Erdogan. Presenti il segretario di Stato, Mike Pompeo, il consigliere per la Sicurezza nazionale, Robert O’Brien, e il delegato speciale  per la crisi siriana James Jeffrey.

Obiettivo nettamente dichiarato degli incontri è fermare l’offensiva turca “Fonte di Pace”, che sta diventando un fattore di estrema delicatezza e complicazione internazionale. Nelle aree del nord della Siria su cui Ankara intende portare avanti un progetto di ingegneria etnica – dislocando profughi arabi e sostituirli ai curdi nemici che vivono e amministrano quei territori da sempre – si muovono più attori. 

Ci sono gli americani, che stanno lasciando per volontà politiche che adesso si sommano a necessità. C’è la Turchia che sta varcando il confine. Donald Trump vuole le truppe fuori dalla Siria, perché ritiene certi impegni interminabili e poco proficui: è per questo che ha annunciato, in una telefonata con Erdogan, che avrebbe aperto spazi per l’avanzata turca. Intendeva probabilmente creare le condizioni di non-sicurezza per giustificare il ritiro (non staremo in mezzo a popolazioni che si combattono da duecento anni, ha twittato poi), una polpetta avvelenata con cui poi contrastare anche la Turchia, ma la situazione gli è sfuggita di mano. 

Della crisi che si è creata ha approfittato certamente Ankara, che ha deciso di spingersi in profondità in Siria e di attaccare i curdi, alleati americani nella lotta allo Stato islamico in quelle aree. Ma di più ne ha approfittato la Russia, che davanti all’attacco turco ha facilitato un accordo tra regime e curdi in chiave anti-Ankara. Un consolidamento del territorio sotto il controllo assadista, ossia del protettorato di Mosca. I soldati russi si trovano adesso in una posizione di interdizione sul campo.

Una presenza apparentemente difensiva, Putin coglie l’occasione per accreditarsi al mondo come il difensore dei curdi, il cui tradimento trumpiano ha innescato un’indignazione emotiva nell’opinione pubblica internazionale. Ma il dislocamento attuale non nasconde il ruolo di influenza che Mosca ambisce di giocare nella zona come trampolino regionale. 

La presenza russa sostituisce di fatto quella americana: c’è stato un passaggio di consegne formale nelle basi di Dadat e Umm Miyal attorno a Manbij, sono gli stessi funzionari statunitensi a dire che le forze russe sono state aiutate dagli Usa ad orientarsi rapidamente. Un passo di lato cordiale, che però rappresenta un nuovo bilanciamento di potenze in un’area nevralgica. Qualcosa che diventa simbolico.  

Ieri in serata, durante il rientro da un viaggio nel Golfo (ambiente dove Erdogan non trova troppi consensi se non nell’isolato Qatar) Putin ha avuto una conversazione telefonica con il turco. Il colloquio è arrivato alla fine di una giornata importante: i russi si sono posizionati in quelle basi statunitensi sull’outskirt settentrionale di Manbij, una città chiave del nord siriano, in contrapposizione ai turchi; il delegato per la crisi siriana del Cremlino aveva evidentemente ricevuto l’ordine di distanziare Mosca dalle operazioni di Ankara, e così è stato in un a conferenza stampa da Abu Dhabi.

Basta il readout della telefonata (i readout sono le parti rese pubbliche dagli uffici stampa governativi) per comprendere l’idea del russo. Mosca ha intimato a Erdogan di non combattere con l’esercito siriano, che però ha avuto scontri con i miliziani ribelli che la Turchia usa come carne da cannone per la campagna siriana. Inoltre Putin ha ribadito la necessità di mantenere intatta l’integrità territoriale della Siria – che con il progetto di Erdogan non sarebbe di certo tutelata. Putin avrebbe anche invitato Erdogan in Russia per la prossima settimana.

C’è una volontà chiara, non creare problematiche al processo di Astana, il quadro negoziale creato da Mosca in cui Teheran e poi Ankara sono stati inclusi. La Russia vuole trovare una soluzione alla guerra civile che insanguina la crisi dal 2011. E non a caso Putin ha ricordato che tra un paio di settimane partiranno le riunioni a Ginevra dell’assemblea costituente che dovrebbe decidere il futuro del paese (e dunque dei suoi equilibri).

Non è chiaro come reagirà, fuor di propaganda, Ankara alle richieste russe. La Turchia intanto si è vista interdetta in alcune aree e ha avuto una chiusura dello spazio aereo siriano dalla Russia. C’è chi crede tra gli analisti e le fonti governative (che adesso preferiscono non parlare perché la situazione è fluida) che tra Erdogan e Putin si troverà una quadra che avrà come oggetto l’esclusione degli Stati Uniti da quelle zone in cui entrambi intendono delineare fasce di influenza futuribili.

I dubbi restano, anche per gli incontri con gli Usa dei prossimi due giorni. L’altro ieri, Trump ha avuto un contatto telefonico con Erdogan, durante il quale l’americano ha annunciato sanzioni e ha chiesto lo stop dell’offensiva, ma il turco ha declinato. Sul campo però la situazione è in stallo, complice anche un blocco aereo imposto dalla Russia (ieri un Su-35 russo decollato da Latakia ha bloccato un F-16 turco appena varcato il cielo siriano). 

I ribelli turchi hanno combattuto ad Ayn Issa contro lo schieramento composito di siriani e curdi, aiutati dal cielo dai russi. È un metodo per mettere Erdogan sotto pressione, evitare incidenti con le forze regolari, martellare i mercenari ribelli. Sempre ieri, i curdi hanno riconquistato un’ampia fetta di territorio attorno a Ras al Ayn, e i turchi si sono avvicinati troppo a un convoglio americano in movimento: dalle basi irachene si sono alzati gli Apache e gli F-15 che hanno per ora creato solo fuoco di protezione e intimorito i miliziani pro-Turchia. Il Pentagono ha regole di ingaggio chiare: se attaccati, anche gli americani risponderanno al fuoco contro gli uomini di Erdogan.

Ecco come gli Usa vogliono fermare Erdogan (e Putin). I dettagli

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