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Il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, ha annunciato ieri l’inizio di una nuova fase nello sviluppo delle relazioni tra Russia e Cina: “La Cina è il nostro partner strategico chiave sulla scena mondiale”, ha detto alla stampa dopo un incontro con Zhang Youxia, vicepresidente del Comitato militare centrale, ossia l’istituzione parallela al ministero della Difesa organo del Partito comunista cinese che guida il Paese.

È soltanto l’ultimo in ordine cronologico dei vari segnali con cui Mosca dimostra di tenerci molto al far sapere al mondo le nuove, frizzanti relazioni con Pechino. Un messaggio evidente rivolto a chi considera la Russia isolata e malandata. Il Cremlino comunica in questo modo di avere amicizie potenti, relazioni in forte crescita, nonostante l’Occidente abbia provato a segregarne i comportamenti paria, come quello sull’Ucraina, inaccettabile per l’equilibrio globale. Allo stesso tempo la Cina ne approfitta per agganciare i russi all’interno del suo network di sviluppo e crescita.

Un mutuo interesse, l’Orso con la strada chiusa a Ovest cerca spazi verso Oriente e il Dragone lo accoglie a braccia aperte. Al di là delle metafore, è lo scenario peggiore per tutta una serie di strateghi e pensatori politici che permeano da anni gli apparati di varie cancellerie occidentali, a cominciare dagli Usa. Istanze che in questo momento sono forti al cuore dello Studio Ovale e rappresentano la base di lavoro di chi costruisce la dottrina trumpiana — questioni che il presidente americano, col suo incedere a tratti poco adeguato ai protocolli velati della politica strategica internazionale, rende evidenti quando parla smaccatamente dell’avvicinamento a Mosca per evitare che la bilancia degli equilibri mondiali si sposti verso Pechino.

In questo gioco di contrappesi, il ruolo della Russia diventa importantissimo. Un’economia ridotta a un’aliquota di quella americana, una potenza militare che non ha i fondi per restare tale, dinamiche interne illiberali e vincolanti che alterano il tessuto sociale, ma una forza politica internazionale rappresentata dalla possibilità di muovere carichi su certi equilibri. Ne parla esplicitamente la Francia, dall’Eliseo ai grandi Ceo di aziende nevralgiche come Total, ma con Mosca persistono problematiche di affidabilità. Sono i temi (spionaggio, politiche aggressive, ingerenze negli altri paesi contro la stabilità occidentale) continuamente portati a galla dagli apparati americani — Pentagono, intelligence, Congresso — che lavorano contro la Russia e dunque secondo una linea non coerente con il presidente. O meglio, lavorano per bilanciare col peso del realismo il desiderio di nuovi contatti della Casa Bianca, che a tratti ha bisogno di zavorre.

In questo quadro complesso, sostanzialmente costituito dal dibattito interno (sia a Washington, ma anche a Mosca e Pechino, dove l’avvicinamento è visto con scetticismo dagli ambienti più legati alla sovranità e al nazionalismo, ma anche a Bruxelles), va riportato un commento su Twitter fatto da Brett McGurk, che in qualità di ex consigliere speciale americano per la Siria ha una profonda conoscenza dei comportamenti russi sul campo – la guerra civile siriana è il quadrante che vede Mosca principalmente coinvolta sul piano militare, impegnata a giocare da potenza politica nella regione.

McGurk, di nomina obamiana ma confermato per due anni dall’attuale amministrazione Trump, si chiede se realmente gli Stati Uniti sono impegnati nel modo giusto in questa “grande competizione tra potenze”. Sostanzialmente, dice McGurk (ora lecturer alla Stanford), i dubbi ruotano attorno a due grandi questioni. La prima è quella che Shoigu e Zhang hanno celebrato pubblicamente: ossia l’avvicinamento Russia-Cina, le strategie americane in questi ultimi anni hanno portato “le altre due grandi potenze a riunirsi in una misura che non si vede in 40 anni”, nota.

Inoltre, prosegue, le scelte che l’amministrazione Trump sta compiendo “alienano gli alleati globali” rischiano di far perdere “il vantaggio comparativo unico rispetto a queste due potenze”. È un altro dei grandi temi dietro a macrosituazioni del genere. Alcuni modi pre-trumpiani di leggere il quadro globale mirano a cambiare i termini dei rapporti interni al blocco transatlantico. Lo stanno mettendo in discussione perché Washington ha la necessità di ri-bilanciare il proprio impegno politico e soprattutto psicologico nel mondo. Visioni che però non trovano rispondenza proattiva in diversi alleati, creando il problema di fondo per cui vengono massimizzate alcune distanze.

(Foto: Twitter, @mod_russi)

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