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“Non è affatto casuale che il primo atto del nuovo governo sia stata la nomina in Europa di Paolo Gentiloni: si tratta, a mio avviso, del primo tassello del nuovo bipolarismo italiano”. La penna del Corriere della Sera e voce di Rai Radio 2, Tommaso Labate, non ha dubbi: la nascita, non senza travagli, del secondo esecutivo a guida Giuseppe Conte – formato stavolta dall’alleanza tra Partito democratico e pentastellati – contribuirà a semplificare il quadro e a tracciare una linea di demarcazione più netta tra le varie proposte politiche in campo: “Di qua ci sono gli europeisti, di là gli euroscettici. Di qua il rapporto con gli Stati Uniti – come conferma il tweet di Donald Trump -, di là la relazione privilegiata con la Russia di Vladimir Putin. Di qua la chiesa di Papa Francesco, di là l’ostentazione del rosario e del Vangelo”. Uno schema da cui dipenderebbe pure, secondo Labate, l’indicazione di Gentiloni per il ruolo di commissario al fianco di Ursula von der Leyen: “Pd e cinquestelle hanno deciso di mandare a Bruxelles una personalità chiaramente europeista. Una scelta di campo netta, diametralmente opposta a quella che sarebbe stata fatta se al governo ci fosse stato ancora Matteo Salvini“.

Quanto i dem hanno dovuto, a suo avviso, imporre agli alleati il nome di Gentiloni?

E’ senza dubbio una vittoria del Pd ma penso che sia stato non il punto di arrivo della trattativa sul governo bensì quello di partenza. Il nome di Gentiloni è stato presente in tutti i toto-ministri di queste settimane. Secondo me sono partiti da lì per poi sfogliare la margherita che ha portato da ultimo alla nomina di Riccardo Fraccaro a sottosegretario a Palazzo Chigi. E’ stato il primo pezzo del puzzle di governo.

La stupisce che il litigioso centrosinistra di Massimo D’Alema e Matteo Renzi, alla fine, sia riuscito a muoversi in modo compatto e ad arrivare addirittura all’alleanza con i cinquestelle?

Parliamoci chiaro, questa volta era in gioco la stessa sopravvivenza del centrosinistra. In tempi di vacche grasse ci si può anche permettere di litigare e dividersi, ma quando la questione di fondo è così grave e importante le cose cambiano, eccome. E poi la politica è pura aritmetica.

In che senso?

Quanto avrebbe potuto prendere alle elezioni un’alleanza classica di centrosinistra formata da esponenti politici e partiti tra loro litigiosi? Il 25%, esageriamo il 30 o, ancora di più, il 35. Uno scenario a mio avviso irrealistico, ma che comunque non sarebbe bastato per vincere. Ecco allora l’alleanza con i cinquestelle. Un’operazione matematica, non poteva che succedere mi verrebbe da dire. Adesso però ovviamente la strada sarà tutta in salita: il governo è nato da due necessità – quella del Pd e quella del M5s – che si fondano comunque su odi reciproci. Una storia tutta da scrivere, ma stare insieme era l’unica opzione per evitare di consegnare il Paese a Matteo Salvini e alla destra.

C’è chi dice sia nato il governo di Beppe Grillo, chi il governo di Matteo Renzi e via dicendo. Secondo lei, chi è il vero azionista di maggioranza del Conte bis? 

Lo sono tutti: questo è il governo di Grillo e di Zingaretti, di D’Alema e di Renzi, di Di Maio e di Bersani. Per salvarsi hanno riparato sull’Arca di Noè, senza la quale nessuno di loro si sarebbe salvato. Per dirla in altri termini, se non avessero optato per questa decisione, sarebbe finita come nell’ultima scena del film Le Iene di Quentin Tarantino: tutti a puntarsi reciprocamente la pistola contro e uno solo che si salva. Cioè, Salvini.

A questo punto come pensa che andrà la navigazione?

Sarà un’alleanza turbolenta, quest’arca dovrà solcare mari in tempesta. Immagino, ad esempio, che sui temi del mercato del lavoro possano nascere maggioranze inedite con la parte sinistra del Pd più vicina a Roberto Fico e più lontana da Matteo Renzi.

Le vecchie divisioni interne al centrosinistra, insomma, potrebbero tornare a fare capolino?

Questo è il peccato originale del Pd che non è mai riuscito a sciogliere alcuni nodi fondamentali. Penso a cosa accadde quando la Fiat lasciò Confindustria e ingaggiò un duello molto duro con la Fiom: a quei tempi nella stessa maggioranza del partito, allora guidato da Pierluigi Bersani, c’era chi si schierava apertamente con Sergio Marchionne e chi, dall’altra parte, con il sindacato. Questioni irrisolte il cui peso si fa sentire ancora oggi. C’è un Pd che vuole abolire il Jobs Act e un altro che vuole rafforzarlo: vedremo come riusciranno a mediare al loro interno e poi anche a trovare la quadra con i cinquestellle.

A proposito di mediazione, come esce il segretario Pd Nicola Zingaretti da tutta questa vicenda?

A mio avviso, è stato tra i più abili in questa fase. E’ partito senza i favori della critica – “non comunica bene”, “usa un linguaggio antico”, dicevano i suoi detrattori – ma ha avuto il merito, la capacità e anche la fortuna di presentarsi con un partito compatto a una scelta fondamentale come quella di dar vita a un governo di questo tipo. Basta pensare a cosa accadde nel 2013, con gli applausi a scena aperta per Bersani e poi i 101 franchi tiratori che in aula impallinarono Romano Prodi. Stavolta è andata in modo completamente diverso, anche grazie al lavoro di Zingaretti.

Ma con quale orizzonte temporale nasce questo governo? Riuscirà a durare? 

E’ chiaro che questo governo dovrà provare a fare almeno una legge di bilancio espansiva, ma non potrà essere la prossima che anzi si preannuncia molto complicata. Per questo penso che inevitabilmente durerà fino al 2021. Ma a quel punto sarà vicina l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, difficile lasciar perdere e tornare al voto. Il vero disegno di Salvini – cui si sarebbe andati con la probabile vittoria della Lega – era di arrivare, per la prima volta nella storia del Paese, all’elezione di un Capo dello Stato di destra. Così non dovrebbe andare.

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