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Anche in Libano quando il premier si dimette “sale al colle”, visto che il palazzo presidenziale si trova in collina. E quando questo pomeriggio il premier Saad Hariri ha deciso di salire al palazzo presidenziale dal Presidente della Repubblica ha certamente dimostrato quel coraggio politico che tutti hanno sempre riconosciuto a suo padre ma quasi nessuno aveva mai attribuito a lui. Ma qual è il coraggio di un premier che si dimette con i 4/5 del Paese in piazza per chiederne le dimissioni? Qual è il coraggio di un premier che sa di presiedere un comitato d’affari che copre un governo non suo ma dei suoi nemici, i filo iraniani di Hezbollah e del Presidente della Repubblica maronita, Michel Aoun? Il coraggio di Saad Hariri oggi dimissionario è quello di negare l’ultima copertura a chi è pronto a scatenare la guerra civile pur di non far insediare il governo tecnico che è l’unica alternativa alla guerra civile in assenza del suo esecutivo. Vediamo perché.

Da anni il Libano è diventato la prima linea dell’offensiva khomeinista, che mira a ricreare l’antico impero persiano da Tehran al Mediterraneo, esportando la rivoluzione dell’ayatollah Khomeini fino alle coste del Mare Nostrum e quindi ponendosi nella posizione migliore per conquistare l’Islam. Se così fosse infatti i khomeinisti controllerebbero oltre a Tehran anche le sedi degli antichi califfi islamici, Baghdad e Damasco, e i porti sul Mediterraneo. Non quelli siriani, che oggi sono stati acquisiti dai russi, ma quelli libanesi. Questo nuovo impero chiede l’appoggio dei cristiani per legittimarsi non come impresa, appunto, imperiale e coloniale, ma come prodotto di un’alleanza tra le minoranze religiose della regione e la minoranza dell’Islam contro la maggioranza musulmana definita in sé causa di ogni prevaricazione, i sunniti.

Hariri, sunnita, sa bene che questo disegno non si può contrastare con i numeri, la sua forza infatti è la milizia armata di Hezbollah e la copertura che ottiene da parte dei cristiani, che la legittimano agli occhi dell’Occidente non per quello è, milizia jihadista, ma forza di “resistenza” contro il terrorismo. Il solo modo che aveva trovato per contrastarla era offrire un comitato d’affari utile a tutti, a lui per primo ma anche agli altri, che rimandasse alcune scelte cruciali in seguito agli sviluppi da determinarsi altrove, innanzitutto in Siria e in Iraq. La rivolta popolare contro tutto questo, che ha portato sul lastrico tutta la popolazione, ha fatto esplodere un dato impensabile: gli sciiti libanesi non credono più fideisticamente in Hezbollah, quel che Hezbollah ha fatto in Siria contro milioni di fratelli arabi e fratelli musulmani gli ha aperto gli occhi.

Così oggi ci troviamo davanti a una crisi a dir poco delicatissima: se Hezbollah accettasse un governo tecnico perderebbe fonti di arricchimento dal comitato d’affari governativo essenziali per la sua sopravvivenza viste le sanzioni economiche che colpiscono Hezbollah e il suo finanziatore, l’Iran. L’arsenale militare costa, come le milizie, e richiede la copertura governativa per i traffici intercontinentali che Hezbollah gestisce fino in Messico e Nigeria e che passano dal porto e aeroporto libanesi. Ma c’è anche l’immagine di Hezbollah in gioco: non può accettare di essere scalzata dal governo del suo Paese quando pretende di cambiare i governi regionali, in Yemen, Siria e Iraq.

Il rilievo politico continentale di questa crisi incredibile sta proprio qui. In gioco ci sono il ruolo regionale di Hezbollah, messo a durissima prova dalla rabbia popolare e dal disincanto degli stessi sciiti libanesi e la linea dei cristiani: con la dichiarazione di fratellanza firmata da Papa Francesco e quindi fautrice di un rapporto tra cristiani, sunniti e sciiti sulla base della comune cittadinanza in tutti i paesi, o l’alleanza delle minoranze contro i sunniti?

Hariri dimettendosi ha dimostrato che nella stessa famiglia del generale Aoun c’è una spaccatura: il genero più famoso, l’attuale ministro degli esteri, è per l’accordo con Hezbollah senza se e senza ma, l’altro genero è di parere opposto. Il dato più importante e meno citato però è un altro; le opinioni pubbliche sciita, sunnita e cristiana sarebbero pronte a seguire la linea indicata da Papa Francesco e a scegliere la comune e paritaria cittadinanza. Questo preoccupa ovviamente tutti, che ne hanno colto la forza dirompente.

Ecco perché il signore di tutte le guerre, lo sciita non di Hezbollah ma suo alleato per necessità, il presidente della Camera Berri, invoca un negoziato tra tutti i soggetti politici negando che nella crisi ci siano risvolti confessionali: la posta in gioco non è soltanto libanese, è regionale, per non dire globale. La posizione di Berri indebolisce evidentemente Hezbollah, che ha ovviamente accusato 3 milioni su 3,5 milioni di libanesi di essere o stupidi o pagati dall’estero. Berri conta molto, ma per quanto eterno oggi è ridotto a ruota di scorta di Hezbollah e sa che avrebbe un grande vantaggio da un indebolimento politico di Hezbollah, ma potrebbe non bastare a salvare il Libano.

In gioco c’è un impero sul quale l’Iran ha investito miliardi e miliardi di dollari ogni anno dal 1982. Siamo comunque davanti all’ennesima riprova della possibilità concreta di una trasformazione epocale dei rapporti islamo-cristiani, come auspicato non da capi miliziani ma da milioni di arabi di ogni credo. Chissà se il mondo e magari anche l’Europa, se politicamente esiste, vorranno finalmente prenderne atto.

Libano, vi racconto il coraggio (e la posta in gioco) del premier dimissionario Saad Hariri

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