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Per delineare i contorni della decisione con cui la Casa Bianca ha spostato alcune truppe dal confine turco-siriano, ma per andare anche oltre, delineando un quadro sul periodo particolare che sta vivendo il presidente Trump, Formiche.net ha intervistato Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss di Roma e autore de “La visione di Trump” — un’analisi sull’attuale presidenza.

Ieri il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha detto in un’intervista a Pbs NewsHour che gli Stati Uniti non hanno autorizzato l’offensiva turca in Siria, ma si era reso necessario lo spostamento dei soldati americani perché erano in pericolo davanti alle ambizioni di Ankara. Pompeo dice che gli Usa continueranno a fare “ciò che è nell’interesse dell’America”. Cos’è nell’interesse degli Usa in questo momento e come si inquadra con il complesso ecosistema della regione?

Che gli Stati Uniti non abbiano formalmente autorizzato l’attacco turco in Siria è sicuro. Tuttavia, arretrando le loro truppe, l’hanno reso tecnicamente possibile, incoraggiandone l’avvio. Recep Tayyp Erdogan puntava a questo risultato da anni, essendo ostile al consolidarsi dell’autonomia curda nel nord della Siria, proprio a ridosso del Kurdistan turco. L’uomo forte di Ankara avrebbe addirittura immaginato di condurre un’operazione di ingegneria etnica, protetta militarmente, per arabizzare il Rojava. Non è ancora del tutto chiara la dinamica del colloquio telefonico tra Trump ed Erdogan. Ma si può supporre che, ascoltate le intenzioni del leader turco, il Presidente americano vi abbia colto l’occasione che cercava per forzare finalmente la mano ai suoi generali ed ordinare il rimpatrio definitivo delle truppe americane dalla Siria. Si è però scontrato con una reazione la cui entità aveva sottovalutato. La causa curda ha simpatizzanti anche negli Stati Uniti, malgrado nel Rojava sia interpretata da guerriglieri che sognano d’instaurare in Kurdistan uno Stato comunista. Di qui, l’esigenza di mettere il rossetto al porco, di cui i contenuti dell’intervista data da Pompeo mi paiono la conseguenza. C’è comunque da evidenziare come il dibattito in corso in America sugli interessi del Paese in Medio Oriente sia molto articolato. Ci sono realisti che ritengono importante “a prescindere” ricostruire la relazione forte che gli Stati Uniti avevano con la Turchia.

George Friedman ad esempio ha sostanzialmente giustificato la scelta di Trump con l’esigenza di separare i turchi da russi e iraniani: ma è così?

Dubito che queste fossero le intenzioni del Presidente Trump, cui interessa soltanto estrarre le truppe americane da tutti i teatri di crisi più impegnativi. Tra l’altro sono riprese anche le trattative con i Taliban. Peraltro, si tratta di un trend di lungo periodo, iniziato ben prima dell’avvento al potere di Trump. Che probabilmente proseguirà anche senza di lui, magari con una narrazione più smart, salvo che non intervengano cambiamenti negli umori degli americani. Sono infatti molto ostili alle “guerre infinite” e agli interventi militari disinvolti anche Elizabeth Warren e Bernie Sanders (due forti contender democratici, ndr). Quanto a Joe Biden, era il Vice di Obama, il Presidente del “driving from behind”. Resistono attestati sulle vecchie agende solo i neoconservatori e i clintoniani.

Allarghiamo il discorso: ieri il senatore Lindsey Graham ha scritto un tweet in cui contestava quello che lui definisce una sorta di nuovo “isolazionismo americano” e sostiene che è sbagliato affidare la lotta all’Is alla Russia o alla Turchia. Come leggere la posizione presa da Trump con la lente della sua visione?

Graham appartiene precisamente proprio al gruppo dei parlamentari repubblicani più sensibili al richiamo neoconservatore. Come John Bolton (l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, ndr), anche Graham ha preferito accostarsi a Trump per condizionarlo, rinunciando ad opporvisi. Ma è un matrimonio infelice, quello tra i neocon e il presidente jacksoniano, destinato a chiudersi in un divorzio molto conflittuale, da “guerra dei Roses”. L’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale minaccia memorie esplosive. E c’è chi ritiene che sia una delle talpe che stanno inguaiando Trump. Graham può invece pilotare una rivolta al momento in cui la questione dell’impeachment raggiungerà il Senato.

Parliamo adesso del quadro generale dietro a Trump: c’è un rapporto con il partito che non prende slancio, c’è la questione impeachment, ci sono decisioni come questa sulla Siria che non piacciono ai congressisti e ad apparati come l’intelligence, c’è la campagna elettorale per Usa2020. Cosa divide il presidente dalla rielezione?

Trump è stato per i repubblicani quello che in Italia definiremmo un “papa straniero”: l’alieno arrivato dallo spazio che si è aggiudicato contro ogni pronostico la nomination nel 2016 a dispetto dell’establishment del partito, approfittando delle sue divisioni interne. Dopo l’elezione, per opportunismo, molti si sono allineati. Ma sarebbe sbagliato ritenere che Trump abbia davvero conquistato il partito con cui ha raggiunto la Casa Bianca. È e resta un isolato, espressione di correnti molto forti tra gli americani lontani dal potere, ma inesistenti nell’accademia, nell’impresa e nell’alta amministrazione. Tutti i resoconti delle vicende interne all’amministrazione raccontano di sedizioni permanenti, che il presidente non riesce a controllare. Non escludo che Trump abbia sacrificato i curdi proprio per creare un fatto compiuto che renda inevitabile il ritiro dei soldati americani dalla Siria.

Da usare per aiutare la rielezione?

La campagna per la rielezione è ovviamente di esito quanto mai incerto. Con l’economia in condizioni smaglianti, il presidente ha perso l’anno scorso le elezioni di medio-termine con otto milioni di scarto, più del doppio del distacco nel voto popolare registratosi nel 2016. Ed è stata una sconfitta politica personale, dal momento che aveva scelto di trasformare quel voto in un referendum su se stesso. Ora c’è la grana Ucraina (la telefonata col presidente Volodymyr Zelensky da cui parte l’avvio della procedura di impeachment, ndr) e potrebbero aggiungersene altre. Trump è debole, il sistema lo percepisce e prova a liquidarlo. A complicare ulteriormente le cose, le prossime elezioni si svolgeranno probabilmente nel mezzo di una fase recessiva del ciclo economico.

 

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