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Il socialista Pedro Sánchez, candidato alla presidenza del governo spagnolo, ha perso entrambe le votazioni – quella a maggioranza assoluta e quella a maggioranza semplice – nella sessione d’investitura di questa settimana in Parlamento. Nel secondo scrutinio, i voti favorevoli sono stati solo 124: i 123 parlamentari socialisti del Psoe più l’unico deputato del Partido regionalista de Cantabria e i voti contrari 155, provenienti dalle tre destre del Partido Popular (Pp), Ciudadanos e Vox e dagli indipendentisti di Junts per Catalunya (JxCat).

Ad astenersi sono stati in 67: i gruppi di Unidas-Podemos, i nazionalisti e gli indipendentisti di sinistra di Pnv e Bildu, i valenciani di Compromís e l’Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), che nella prima votazione aveva votato contro. Risultato ottenuto su una platea di 346 e non di 350 votanti, poiché quattro deputati catalani indipendentisti, in carcere da oltre un anno e in attesa di sentenza – Oriol Junqueras per Erc e Jordi Sánchez, Josep Rull e Jordi Turull per JxCat – risultano sospesi nelle loro prerogative parlamentari.

Non è dunque bastata la pressione sociale e politica delle ultime ore per arrivare ad un accordo di governo tra Psoe e Unidas-Podemos. La trattativa vera, ridotta all’ultimo giorno, dopo avere sprecato tre mesi dalle elezioni del 28 aprile, non è riuscita a vincere le rigidità e la sfiducia che avevano segnato le relazioni tra i due partiti nelle settimane scorse.

RISCHIO URNE A NOVEMBRE 

Il rischio concreto, ora, è quello del ritorno a nuove elezioni nel mese di novembre. Una sconfitta per la sinistra spagnola, incapace di mettere a segno il risultato storico di una coalizione di governo progressista. E una sconfitta per la politica che, ancora una volta – come già nel 2016 e con lo stesso candidato – si trova di fronte a un’investitura fallita per la propria incapacità di gestire una logica di patti e di coalizione.

La sessione d’investitura è stata astiosa e piena di recriminazioni tra quelli che avrebbero dovuto essere i partner naturali di un’intesa di governo: il candidato premier vi è arrivato senza aver chiuso nessuna trattativa, confidando sul fatto che la sua era l’unica candidatura possibile per la Moncloa. E Sánchez, come tutti hanno sottolineato nel corso del dibattito parlamentare, si è presentato come se avesse avuto la maggioranza assoluta dei consensi, anziché appena 123 voti, senza perciò cercare  le necessarie intese per venire eletto. Assente ogni riferimento al conflitto catalano nel suo discorso d’investitura; appena poche parole, nelle ultime battute, al suo possibile socio di governo e un continuo appello a Pp e Ciudadanos per avere la loro astensione. Quell’astensione che lui negò nel 2016 al Pp di Mariano Rajoy e che gli costò allora la carica di segretario generale del Psoe.

IL TIRA-E-MOLLA CON PODEMOS 

Una coalizione di governo tra Psoe e Unidas-Podemos, con la non ostruzione di almeno una parte degli indipendentisti, era osteggiata da molti centri d’interesse in Spagna e accettata malvolentieri dagli stessi socialisti che, all’indomani delle elezioni, vagheggiavano di formazione di un governo in solitaria a geometria variabile. Convinzione rafforzata alla luce dell’esito delle consultazioni europee, comunali e autonomiche di maggio, che tornavano a premiare i socialisti e indebolivano la rappresentanza territoriale di Podemos.

In tre mesi, il Psoe è passato dalla proposta di un monocolore duro e puro a quella di un governo di cooperazione, come in Portogallo, dove i socialisti governano con il sostegno esterno delle altre sinistre. Poi ha cominciato ad agitare lo spettro catalano, quello del probabile riacuirsi del conflitto in Catalogna quando ci sarà la sentenza del processo ai leader dell’indipendentismo, perché il segretario di Podemos, Pablo Iglesias, riconosce l’esistenza di prigionieri politici e propone la celebrazione di un referendum di autodeterminazione. Fino ad avanzare perciò un veto esplicito alla presenza del leader della formazione viola nell’esecutivo di Madrid, fatto inedito nella storia della costruzione di coalizioni di governo, cui Iglesias ha risposto facendo un passo indietro pur di consentire la nascita di un asse di governo progressista.

Il resto è cronaca degli ultimi giorni. Giovedì 25 luglio, nel dibattito che ha preceduto la seconda votazione, la battaglia tra Sánchez e Iglesias si è giocata sulla narrazione per giustificare il fallimento della costruzione di una coalizione progressista. “Il problema non riguardava il programma ma i ministeri, perché Podemos, con il 25% di voti della Camera voleva controllare l’intero governo”, ha accusato Sánchez, enumerando le proposte di ministeri e la vicepresidenza offerte alla formazione viola e da questa considerate insufficienti, perché vuote nei contenuti. “Ci vuole un governo coerente, non due governi in uno”, ha concluso, evidenziando che la questione è di merito. “Chiediamo rispetto. È difficile negoziare un governo in 48 ore quando non lo si è fatto in tre mesi, filtrando informazioni alla stampa – la risposta di Iglesias -. Chiediamo competenze, non poltrone”, confermando la disponibilità a un’intesa nel futuro.

LANCETTE AL 23 SETTEMBRE 

Con la doppia bocciatura della candidatura di Sánchez è cominciato il conto alla rovescia di due mesi: se entro il 23 settembre non ci sarà l’investitura del premier, le Camere saranno sciolte e si convocheranno nuove elezioni per il 10 novembre. Tutti i gruppi che si sono astenuti lo hanno fatto sperando in un accordo tra Psoe e Unidas-Podemos nelle prossime settimane che scongiuri il ritorno alle urne. Effettivamente, l’unico candidato possibile è ancora e solo Pedro Sánchez, perché i voti del suo partito e quelli delle formazione viola superano quelli di Pp, Ciudadanos e Vox, mentre le forze che si sono astenute hanno già in passato portato al governo il leader socialista, votando la mozione di sfiducia contro il popolare Mariano Rajoy.

Ecco perché tra il primo e il secondo scrutinio Erc ha cambiato il suo voto, per dare un’opportunità all’intesa: “Per quanto tempo come sinistra ci pentiremo di non esserci riusciti oggi?”, ha recriminato il repubblicano Gabriel Rufián all’indirizzo di Sánchez e Iglesias. Esquerra Republicana de Catalunya ha votato diversamente dall’alleato di governo catalano JxCat, che ha confermato invece l’esistenza “di 155 ragioni per votare no”, in riferimento all’articolo della Costituzione applicato in Catalogna nell’autunno 2017 per commissariarne le istituzioni.

Il rischio di nuove elezioni ha motivato Bildu, la formazione basca della sinistra abertzale, che ha mantenuto il suo voto di astensione in entrambi le votazioni, perché “non abbiamo senso dello Stato spagnolo, ma ci avanza molto buon senso”. L’eventualità che si torni alle urne preoccupa tutti, in particolare la sinistra che rischia la smobilitazione del suo elettorato. In una nuova competizione elettorale, le destre  potrebbero rafforzarsi anche con la presentazione di una lista unitaria.

Dal 2015, la Spagna è diventata ingovernabile: la fine del bipartitismo ha rotto tutti gli equilibri e il conflitto catalano ha finito col disvelare la crisi di regime. Per settembre è attesa anche la sentenza del processo alla leadership indipendentista e tutto sarà più difficile in Spagna e in Catalogna.

Il fallimento di Sánchez prolunga lo stallo in Spagna

Di Elena Marisol Brandolini

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