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Tracce, indizi, prove. Ora quasi una sicurezza: Matteo Renzi, riscaldati i motori, è pronto alla scissione dal Pd per creare il suo gruppo parlamentare e, in prospettiva, un “partito personale”. In verità già Ilvo Diamanti aveva denominato PdR, “partito di Renzi”, il Pd ai tempi d’oro in cui il senatore di Rignano era segretario e presidente del Consiglio. Poi è arrivato Nicola Zingaretti e molte cose sono cambiate. Perché Renzi si è convinto a questo passo? E perché proprio ora?

Il primo elemento da osservare è che il Matteo di sinistra ha molti tratti in comune con l’alquanto acciaccato Matteo di destra. Entrambi hanno una concezione attivistica e personalistica della politica, e amano circondarsi di persone la cui fedeltà è stata sperimentata. Tanto che il “cerchio magico” renziano ha retto alle prove della politica, con le sue alterne fortune. Renzi e Matteo Salvini sono politici allo stato puro, che fiutano gli umori prima ancora di riflettere, che seguono l’istinto e agiscono con “impeto” e senza “respetto” (anche se poi, diceva Machiavelli, il politico dovrebbe possedere entrambe le “virtù”).

Renzi, che non era mai scomparso, è ritornato in primo piano un mese fa quando Salvini ha goffamente sfiduciato il governo Conte e il segretario del suo partito, appunto il malsopportato Zingaretti, sembrava persuaso della inevitabilità del voto anticipato. Il quale, fra l’altro, gli avrebbe dato, con l’elezione di suoi candidati, se non altro un controllo maggiore sul suo partito, contrastato attualmente proprio dal blocco coeso dei renziani. Le elezioni sarebbero state la quasi morte politica per chi, come Renzi, sul gruppo di deputati e fedeli voleva forse già allora costruire uno strumento politico più in corrispondente alle sue ambizioni.

Fiutata la scarsa volontà di andare a votare da parte di parlamentari di destra e di sinistra a rischio di non essere rieletti, capito che i “padri nobili” (Romano Prodi e Massimo D’Alema avanti a tutti) temevano, con un governo a matrice salviniana, di non avere più chance per la presidenza della Repubblica, Renzi si è fiondato come un falco sull’altro Matteo e lo azzannato senza pietà. Un piccolo capolavoro anche di spregiudicatezza politica, sol che si pensi che proprio lui aveva giurato di non volere andare mai coi grillini. L’importante, avrà pensato, non è la coerenza ma saper cogliere, come lui sa fare da maestro, quello che i greci chiamavano Kairòs, cioè il “momento opportuno”, appena si presenta.

Ed è sulla cresta di questo successo, e con la sicurezza di avere qualche mese in più e forse l’intera legislatura per consolidare la sua creatura, che Renzi ha ora necessità di affrettare i passi. Rimasto insoddisfatto della trattativa su viceministri e sottosegretari ha come trovato l’alibi giusto per accelerare. E l’operazione si rivelerebbe addirittura machiavellica se, come sembra, nel Pd rimanesse un’ala di renziani “morbidi”: un piede in due staffe!

Potrebbe il partito di Renzi costituire l’embrione di quel polo moderato che, in prospettiva, coinvolgerebbe anche Forza Italia? Che al centro ci sia un vuoto politico da riempire è evidente, ma sul fatto che lo possa riempire Renzi mi si permetta di avere qualche dubbio. Seguirebbe l’elettorato un leader che viene percepito come appartenente ad un’altra stagione e per di più legato al potere per il potere?

Le percezioni in politica contano, e anche l’immagine pubblica. E non importa se corrispondono solo in parte alla realtà. Su questo elemento, Renzi non sembra avere adeguatamente riflettuto.

Ocone spiega perché la virata di Renzi al centro non lo convince

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