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“Logica vuole che esista una proporzione geometrica tra l’argomento che deve essere sostenuto e la forza necessaria a sostenerlo”. Potrebbe sembrare una frase pronunciata dalla Regina dei draghi nel suo nobile seppur spietato sforzo di liberare i popoli dall’oppressione schiavista. Appartengono invece al cardinale Richelieu le parole, contenute all’interno del Testamento politico, con le quali descrive efficacemente il rapporto che deve sussistere tra i mezzi e i fini nell’esercizio del potere. Se appaiono veritiere e potenzialmente applicabili a tutti i campi ove si metta in pratica l’arte del comando e dell’alta amministrazione, esse lo sono a maggior ragione nell’ambito della politica estera, che della politica in generale costituisce molto spesso l’espressione suprema.

È proprio in politica estera che si tocca con mano la dialettica e spesso la distanza fra idealismo e realismo, fra la volontà di agire in base a princìpi morali e la necessità di fare i conti con i rapporti di forza e gli strumenti concreti di cui si dispone. È così che avviene tanto nella realtà, quanto in Game of thrones. Basti pensare a Jon Snow, che si espone alle accuse di tradimento da parte dei confratelli pur di portare avanti la sua causa, o alla Lady di Grande inverno che trova in Ditocorto un alleato indispensabile seppur con non poche remore. È anche il campo dove la selezione democratica delle classi dirigenti mostra talvolta il suo volto meno nobile, per via della mancata corrispondenza tra la straordinaria portata del lavoro da svolgere e dei risultati da raggiungere e il riconoscimento pubblico che ne deriva.

Nel 1945 Winston Churchill perse le elezioni proprio dopo aver condotto il suo Paese alla vittoria nella Seconda guerra mondiale, pur incarnando lo spirito di resistenza e di riscossa nazionale anche attraverso le migliori espressioni della sua arte oratoria come il celebre We shall fight on the beaches pronunciato alla Camera dei comuni il 4 giugno 1940. È infine la politica estera il campo in cui ogni decisione che il potere pone in essere ha sempre almeno due destinatari: l’interlocutore esterno (cioè lo Stato straniero, che non è mai sempre e soltanto un alleato o sempre e soltanto un nemico) e il proprio Paese, con i suoi specifici meccanismi di consenso, di legittimazione, di rivalità interne, con la sua opinione pubblica a cui rendere conto del proprio operato. Sarà difatti sempre Jon Snow, allora Guardiano della notte, a esporsi alle accuse di tradimento da parte dei confratelli pur di portare avanti la sua causa. Alla luce di queste considerazioni, l’avanzata di quell’insieme di tendenze politiche riunite sotto la definizione di sovranismo può costituire oggi un’importante occasione di riforma e miglioramento degli assetti interni e internazionali.

In senso generale, il sovranismo nasce da una esigenza profondamente democratica, cioè quella di riavvicinare le istituzioni alle persone, di riportare le sedi in cui il potere assume le proprie decisioni in un ambito di prossimità al cittadino: i Parlamenti e i governi legittimamente eletti. Nel campo della politica estera ciò non significa affatto una chiusura degli Stati in loro stessi, né tantomeno un rifiuto delle istituzioni sovranazionali come tali. Si tratta piuttosto del tentativo di riequilibrare il rapporto tra i mezzi e i fini. Il fine è trovare l’equilibrio tra i legittimi ma spesso contrapposti interessi degli Stati e delle nazioni, alla ricerca di un ordine internazionale per quanto possibile giusto e trasparente. Le crisi degli ultimi anni hanno dimostrato che il mezzo più adeguato per raggiungere tale scopo non è il progressivo trasferimento di poteri e competenze dagli Stati alle tecnostrutture sovranazionali, ai mercati finanziari o a un multilateralismo dove la voce del singolo Paese quasi evapora nell’anonimato.

Il sovranismo ha il suo banco di prova nella politica estera perché proprio qui occorre dimostrare che il ritorno di quote di sovranità agli Stati nazionali significa più dialogo e concertazione, più facoltà anche per i Paesi di medie e piccole dimensioni di far sentire la propria voce, maggiore riconoscibilità degli attori istituzionali che prendono le decisioni e dunque anche maggiore revocabilità da parte dei rispettivi popoli. Il sovranismo vincerà la sua sfida come cultura politica del XXI secolo se si dimostrerà un’efficace medicina democratica ai mali di cui soffre la civiltà occidentale, rendendo il potere più rappresentativo della società di cui in ultima analisi esso è espressione e mandatario.

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