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Il premier italiano Giuseppe Conte, in visita a Pechino, ha parlato con i giornalisti di una conversazione avuta con il libico Fayez Serraj alla guida del governo di accordo nazionale promosso dall’Onu, messo sotto attacco da Khalifa Haftar il signore della guerra dell’Est che venti giorni fa ha lanciato un’aggressione su Tripoli con l’intento di conquistare il controllo della capitale. Conte ha spiegato che l’Italia non sostiene “un singolo attore nel teatro libico”, ma “il mio governo mira a ottenere la stabilizzazione del paese, e riteniamo che per giungere a questo risultato l’opzione militare non è assolutamente affidabile”.

Poi ha aggiunto che “l’azione di Haftar, appoggiato da alcuni paesi, è evidentemente unificare il territorio libico, di unificare l’esercito e le forze di sicurezza. Può avere una logica ispiratrice, una sua plausibilità”, ripetendo che comunque l’uso della forza resta un’opzione impraticabile per riunificare la Libia. Ancora: la posizione dell’Italia – che Conte definisce “lungimirante” – “non è a favore di Haftar o a favore di Serraj, la nostra posizione è a favore del popolo libico che riteniamo stia soffrendo da troppo tempo, mentre ha il diritto di vivere in pace, in una prospettiva di benessere”.

Per questo, ha continuato Conte, “invito tutti i leader europei, mediorientale e gli Stati Uniti, a considerare che dobbiamo lavorare a una soluzione politica”, che deve passare da “un cessate il fuoco immediato”, perché se continuerà l’uso della forza la “soluzione politica rischia di allontanarsi, perché la violenza genera violenza”.

Domani, nell’ambito delle riunioni a latere del Forum sulla Nuova Via della Seta in cui Conte sta guidando la delegazione italiana, il premier italiano avrà un incontro con l’ospite d’onore, Vladimir Putin, in cui si parlerà anche di Libia. La Russia è uno degli attori esterni che ha peso sul dossier, sia in sede Onu – dove è membro permanente del Consiglio di Sicurezza – sia perché ha fornito sostegno informale a Haftar.

L’Italia sta cercando di organizzare un incontro con l’autoproclamato Feldmaresciallo libico per quando Conte tornerà dalla Cina.

Intanto la crisi acquista  sempre più una dimensione regionale. Oggi il ministro degli Esteri algerino ha assunto una posizione netta sulla crisi libica – chiedendo di fermare la campagna lanciata da Haftar, cui hanno risposto milizie locali e misuratine con una vocazione prevalentemente anti-haftariana. Il ministro Sadi Boukadoum dice che non c’è soluzione militare, chiede il cessate il fuoco, e aggiunge che “non è accettabile” che una capitale del Maghreb sia posta a ferro e fuoco: “Su questo l’Algeria non può restare silente”.

L’ampliamento ovvio sul Maghreb (ma non solo) era già stato sottolineato con un’esposizione della Tunisia a sostegno della deposizione delle armi e contro il tentativo di scacco di Haftar – che ancora resta in stallo, dopo oltre venti giorni (nota: l’autoproclamata Feldmaresciallo prometteva ai suoi milizia assoldati anche a Ovest e nel Fezzan che sarebbe stata una passeggiata trionfale, tra le donne della capitale che li avrebbero accolti lanciando fiori, ma sul campo perde terreno).

Dalla Tunisia, dove il 30 aprile il vicepremier italiano Luigi Di Maio sarà in visita per incontri bilaterali (anche a tema Libia), sono arrivate nei giorni scorsi dichiarazioni che fanno sponda a Tripoli su un fronte molto delicato: la Francia. Sui media girano ricostruzioni, passate da fonti anonime del governo tunisino, che sostengono che i 13 francesi fermati il 17 aprile armati sul confine di rientro tra Tripoli fossero in realtà membri di unità operative dei servizi segreti francesi.

Il governo onusiano guidato da Fayez Serraj pochi giorni fa ha interrotto i rapporti con Parigi anche a seguito di quell’episodio, perché ritiene i francesi troppo esposti verso Haftar. Dall’Eliseo smentiscono ogni genere di coinvolgimento nell’offensiva attuale, ma in passato equipe paramilitari della Dgse (intelligence estera) hanno lavorato in forma discreta per il Feldmaresciallo; relazioni mai estinte del tutto, che vengono considerate da fonti del governo di Tripoli come un appoggio implicito all’uomo forte della Cirenaica.

In mattinata arriva un’altra notizia del genere: una nave militare francese avrebbe consegnato armi e motoscafi alla milizia haftariana a Ras Lanuf. “Molto grave”, aggiungono le stesse fonti. Però attenzione: lo scrive al Jazeera che è un’emittente del Qatar attore esterno molto vicino alle milizie di Misurata e Tripoli che stanno sostenendo la controffensiva anti-Haftar. Secondo altre ricostruzioni sarebbe stato semplicemente uno scalo tecnico.

Specchio riflesso dall’Est: il portavoce dei miliziani del Feldmaresciallo dice che al porto di Misurata avrebbe attraccato una nave iraniana per portare rifornimenti ai locali. Ma dal fronte arrivano giornalmente montagne di propaganda (e il cargo iraniano che porta armi agli anti-Haftar è quanto meno sospettato di esserne parte).

È l’onda lunga di quella dimensione regionale della crisi: Doha è stata messa in isolamento diplomatico nel Golfo, perché Arabia Saudita ed Emirati Arabi la ritengono collusa con gruppi terroristici e troppo vicina all’Iran. Riad e Abu Dhabi, nemici giurati di Teheran e promotori di una nuova linea aggressiva contro la Repubblica islamica, sono due sostenitori esterni di Haftar.

Val la pena ricordare che il principale espediente narrativo con cui Haftar giustifica la sua campagna verso Tripoli è quello dell’anti-terrorismo.

Sulla Libia si scontra anche la visione islamista di paesi come il Qatar e la Turchia, e quella più universalistica saudita ed emiratina. Uno scontro intra-islamico, che sfrutta il territorio proxy della crisi in corso. Una complicazione ulteriore sul delicato filo sospeso della terza guerra civile in meno di dieci anni a cui il paese sta andando incontro.

 

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