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Una superpotenza militare che continua a guadagnare terreno sugli Stati Uniti e i loro alleati. Un gigante dai piedi d’argilla, con un’economia logora e una pila di insuccessi alle spalle. Ci sono due narrazioni opposte e inconciliabili sulla Russia di Vladimir Putin. A Washington DC tanto la comunità accademica quanto l’amministrazione Trump sono divise sul bilancio finale. Ha ancora senso parlare di Guerra Fredda? La Cina ha soppiantato la Russia come competitor numero uno degli Stati Uniti? Formiche.net ha chiesto un parere a due esperti d’eccezione con un passato al Dipartimento di Stato e al National Security Council. Andrew Weiss e Paul Stronski, rispettivamente vice-presidente per gli studi e senior fellow per il programma russo al Carnegie Endowment for Democracy. Ecco cosa ci hanno risposto.

Sembra che il presidente Donald Trump voglia lasciarsi definitivamente alle spalle il caso Russiagate. Il rapporto diffuso da Barr esclude che vi sia stata collusione con i russi. Ora c’è spazio per un miglioramento dei rapporti fra Washington e Mosca?

Andrew Weiss: La politica americana è estremamente volatile e polarizzata, è difficile fare previsioni. La Russia rimarrà un’ombra su Trump. Il presidente non ha ancora spiegato perché ha chiesto così tante volte un cambio di passo nei rapporti con Mosca, e su questo punto rimane un solco fra lui e i politici di Washington DC. Trump ha mostrato di non saper gestire da solo la politica estera, è molto più bravo a distruggere lo status quo che a costruirlo. Il resto della sua amministrazione ha mantenuto un approccio con i russi non diverso da quello di Barack Obama. Il Congresso sta cercando spazi di manovra per indagare sui rapporti con la Russia, finora senza grande successo.

Paul Stronski: La domanda presuppone che l’indagine di Mueller sia conclusa, ma per il momento abbiamo solo qualche pagina tratta da un riassunto del procuratore Barr. Credo che nel rapporto completo ci sia materiale ben più scomodo. Anche se non si potesse usare davanti a una corte per incriminare il presidente, non sarebbe una buona notizia per il Paese. Il Russiagate dunque rimane un ostacolo ai rapporti con Mosca. Senza contare che in questi anni la Russia ha guadagnato diversi detrattori negli Stati Uniti e non esiste una base elettorale che chieda insistentemente un miglioramento delle relazioni bilaterali.

La Russia è ancora il competitor strategico numero uno degli Stati Uniti?

Andrew Weiss: Negli Stati Uniti c’è il vizio di far apparire la Russia come fosse alta tre metri, tanto per quel che ha fatto in Crimea quanto per le interferenze durante le elezioni presidenziali del 2016. Al contempo c’è la tendenza di ricondurre alla Russia qualsiasi evento negativo accada nel nostro Paese. Sono i due estremi di un approccio semplicistico. La Russia è particolarmente brava a sfruttare occasioni già esistenti, non a crearle. La politica americana è spaccata in due e questo ha fatto il gioco del Cremlino, che dal 2014 teme che gli Stati Uniti stiano preparando un cambio di regime a Mosca. Putin è riuscito a far apparire all’estero la Russia una potenza dirompente. Non è un caso che cinque anni fa la Nato non avesse un solo carro armato sul fronte orientale e oggi abbia dispiegato le sue truppe al confine dell’Europa dell’Est e aumentato su ogni fronte la deterrenza anti-russa.

Paul Stronski: È vero, l’intervento russo in Crimea e le interferenze nei Paesi occidentali sono riusciti a rivitalizzare la Nato in questi anni, sul lungo periodo la Russia potrebbe pentirsene. Ricordo che nel 2013, quando ero al governo, gli alleati transatlantici erano divisi sul ruolo globale che avrebbe dovuto assumere la Nato all’indomani della guerra in Afghanistan, l’invasione russa in Crimea l’anno successivo ha dissipato ogni dubbio. Sul piano economico la Russia certamente non è un competitor geopolitico degli Stati Uniti. Su quello militare lo è, come ogni Paese dotato di armi nucleari. Negli ultimi anni però sono stati più gli insuccessi dei successi di fronte alla comunità internazionale. Le interferenze in Grecia e negli Stati Uniti non sono andate a buon fine. Lo stesso discorso vale per la Crimea. Mosca si è messa contro non solo tutta la popolazione ucraina, ma anche gran parte degli Stati dell’Europa dell’Est compresi quelli al confine come Kazakistan e Bielorussia.

Sono fondate le accuse alla Russia di rompere la solidarietà atlantica ed europea? Se così fosse perché gli Stati membri Ue, compresi i più scettici, continuano a rinnovare le sanzioni contro Mosca ogni sei mesi?

Andrew Weiss: Proprio perché l’Europa è così divisa sulla Russia, il rinnovo semestrale delle sanzioni è divenuto occasione di ritrovare coesione e riflettere su quali punti 28 Stati membri devono imperniare la loro appartenenza all’Ue. Anche i Paesi più scettici come l’Italia stanno rinnovando le sanzioni perché sanno che un veto romperebbe irrimediabilmente la coesione europea. Il problema semmai è un altro. Stati Uniti ed Europa non stanno coordinando i loro sforzi. L’amministrazione Trump persegue una strategia bifronte che non è di alcun aiuto. Sulle sanzioni alla Russia mantiene un severo approccio unilaterale, e al tempo stesso non perde occasione di criticare la solidarietà europea e soprattutto contro la Germania, il Paese che più di tutti potrebbe aiutare gli Stati Uniti a contenere la Russia, verso cui nei corridoi della Casa Bianca c’è oggi un pregiudizio davvero inspiegabile.

Paul Stronski: Per il momento Putin deve fare i conti con un magro bilancio. La Russia ha da sempre l’obiettivo di rompere la solidarietà europea e indebolire l’Alleanza atlantica. Forse in questi anni è riuscita ad aumentare le distanze fra Stati Uniti ed Europa e a trascinare a sé alcuni Stati del Vecchio Continente, ma non sono i russi ad aver messo in pericolo la coesione europea. Le interferenze nei sistemi elettorali per il momento non hanno riscosso un grande successo. Da qui a cinque anni vedremo se Mosca riuscirà a raccogliere in Europa quel che ha seminato.

Stefanini, Russia, sanzioni putin

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