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L’INNALZAMENTO E’ UFFICIALE

Qualche ora fa il ministero del Commercio di Pechino ha fatto sapere di aver ricevuto la comunicazione da Washington sull’innalzamento delle tariffe commerciali che riguardano l’importazione americana di una lunga lista di beni cinesi, che comprende prodotti alimentari, chimici e industriali, risorse naturali e molto altro, per un valore pari a 200 miliardi di dollari (percentuale che salirà dal 10 per cento, imposto già a settembre scorso, al 25).

Il governo del Dragone ha risposto esprimendo “profondo rammarico” annunciando che la Cina avrebbe “preso le adeguate contromisure”, ma confidando nella speranza che “gli Stati Uniti lavorino con noi per risolvere le questioni esistenti attraverso la cooperazione e la consultazione”.

A Washington da ieri c’è Liu He, vicepremier cinese delegato per le contrattazioni commerciali, che sta conducendo quello che avrebbe dovuto essere un round decisivo nei negoziati sul Commercio in corso da mesi con gli Stati Uniti. Negoziati che, dopo il faccia a faccia tra Donald Trump e Xi Jinping a latere dell’ultimo G20, avevano messo in stand by l’innalzamento dei dazi americani dando spazio alle trattative.

CHE COSA E’ CAMBIATO

Poi, dal fine settimana scorso, le cose sono cambiate. Secondo indiscrezioni non smentite della Reutersi cinesi si sarebbero tirati indietro davanti agli intenti proposti nei colloqui precedenti, che riguardavano piani per riformare il proprio mercato interno e non solo riequilibrare lo sbilancio commerciale con gli Usa (per esempio modifiche alla gestione degli investimenti o quelle riguardanti i furti di proprietà intellettuale).

Il Wall Street Journal aggiunge un altro dettaglio: il passo indietro cinese è stato frutto di una lettura di Pechino, che ha letto la postura ottimistica diffusa sui media dai negoziatori americani e soprattutto dallo stesso presidente come una debolezza di cui potersi approfittare. Insomma, ci hanno provato.

Davanti alle evoluzioni, domenica scorsa Trump aveva cambiato registro e annunciato le nuove misure – e ieri è stata diffusa la notizia che il Tesoro e il dipartimento al Commercio stanno già studiando come applicarne altre su ulteriori 325 miliardi di dollari di import dalla Cina (che si aggiungerebbero ai 50 miliardi di generi tecnologici tassati a giugno 2018). Lunedì, poi, il rappresentate al Commercio del governo americano, Robert Lighthizer, un falco anti-cinese che ha avuto un ruolo primario nel corso dei negoziati, aveva annunciato che dalla mezzanotte di venerdì i nuovi dazi sarebbero entrati in funzione.

Liu He, da Washington, ha commentato al corrispondente dell’agenzia statale cinese Xinhua che “spera di impegnarsi in scambi razionali e sinceri con gli Stati Uniti”, già nei negoziati che riprenderanno comunque tra poche ore, aggiungendo che aumentare le tariffe è “dannoso per il mondo intero”.

QUANTO COSTA

“Ridurrà la competitività delle aziende americane, ridurrà l’efficienza delle loro catene di approvvigionamento globali e si ripercuoterà sull’economia degli Stati Uniti: […] questa è una tassa sul consumatore americano”, ha detto il vicepremier cinese non senza calcare la mano: un contro-pressing difensivo/offensivo, perché la Cina effettivamente ha risentito della politica dura americana, ma cerca di creare una forte narrazione contraria – ovviamente credibile e non del tutto campata in aria – per spingere parti degli apparati statunitensi al panico sul rischio crisi globale e veicolare la richiesta di una via più morbida verso lo Studio Ovale.

Una stima interessante su questo fronte l’ha fatta l’American Apparel and Footwear Association, secondo cui una tariffa del 25 per cento sulle importazioni di abbigliamento aumenterebbe i costi per una famiglia di quattro persone di 500 dollari all’anno. Per il momento, comunque, i mercati non hanno subito un contraccolpo troppo pesante, forse perché i nuovi dazi entrano in vigore per gli ordinativi chiusi da oggi in poi, ossia gli affari precedenti non ne saranno gravati. Questo lascia spazio all’ottimismo di un qualche accordo (o sospensione) nell’imminente futuro.

“[Dobbiamo] incontrarci a metà strada”, ha detto in questi minuti il portavoce del ministero degli Esteri cinese, ma l’ingaggio americano contro Pechino è un sentimento condiviso tra amministrazione, Capitol Hill (in forma bipartisan) e parte del mondo del business (l’altra, per esempio quella rappresentata dalla camera di commercio americana in Cina, si dice “delusa”).

Washington sta spingendo per chiudere un accordo più favorevole possibile, e per esserlo deve portarsi dietro tutto il quadro delle problematiche esistenti: furto di proprietà intellettuale e di segreti commerciali statunitensi; trasferimenti forzati di tecnologia; politica della concorrenza; accesso a servizi finanziari; e manipolazione valutaria.

Ieri il presidente Trump aveva detto di nutrire la speranza di un contatto diretto con Xi, dopo aver ricevuto dal cinese “una bellissima lettera”, e questa è una dimostrazione che comunque, al di là dei dazi (che hanno la funzione di morsa per pressare la Cina) la Casa Bianca è ancora pronta al negoziato. Oggi però il portavoce degli Esteri da Pechino dice di non essere a conoscenza di piani per colloqui tra i due leader (ma anche questo potrebbe essere parte del gioco di posizione reciproco).

Trump è noto per aumentare  la retorica in fasi di negoziato (una tecnica che ha più volte descritto come efficace nel settore immobiliare dove ha costruito la sua carriera) e ha detto già che il miglior modo per arrivare a nuovi accordi commerciali secondo lui è minacciare le controparti o imporre misure aggressive sul commercio.

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La guerra dei dazi è partita (nonostante la bellissima lettera di Xi a Trump)

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