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LA POSIZIONE DI ROUHANI

“Oggi non si può dire se le condizioni siano migliori o peggiori del periodo di quelle durante la guerra (1980-88), ma durante la guerra non abbiamo avuto problemi con le nostre banche, le vendite di petrolio o le importazioni e le esportazioni, e c’erano solo sanzioni sugli acquisti di armi”, ha dichiarato il presidente iraniano, Hassan Rouhani all’agenzia di stampa statale IRNA: “Le pressioni dei nemici sono una guerra senza precedenti nella storia della nostra rivoluzione islamica […] ma io non dispero e ho una grande speranza per il futuro e credo che possiamo muoverci e passare oltre queste difficili condizioni se siamo uniti”.

Sono parole che seguono la linea moderata, o forse meglio dire realista, della sua presidenza e che cercano di creare una protezione politica davanti agli attacchi dei conservatori, quelli che interpretano le posizioni più dure all’interno del regime, che hanno messo Rouhani sulla graticola davanti all’aumento delle pressioni americane contro il paese.

LA STRETTA DI TRUMP

Gli Stati Uniti, in questa ultima settimana, hanno alzato il livello di guardia contro Teheran come conseguenza di informazioni di intelligence arrivate a Washington (forse tramite Israele) riguardo alla possibilità di attacchi condotti sia alle navi che al personale americano che si trova in Medio Oriente; le navi civili che solcano il Persico, i militari in Iraq e Siria (in totale settemila), le migliaia di cittadini Usa che lavorano nella regione. Ma la postura che gli americani hanno assunto in questi ultimi giorni segue la traiettoria di massima pressione che l’amministrazione Trump ha voluto imprimere al dossier.

Basta pensare al ritiro dall’accordo sul nucleare del 2015, con il rischio di far crollare l’intera architettura dall’intesa multilaterale, che aveva cercato di costruire un ordine internazionale attorno alle criticità che il confronto ideologico e geopolitico tra Repubblica islamica sciita e monarchie sunnite del Golfo (nonché con lo stato ebraico), e contemporaneamente aveva permesso all’Iran di riaprirsi spazi economico commerciali – la forza su cui Rouhani spingeva per inquadrare il colloquio con il mondo, e soprattutto con gli Usa, come una necessità realistica per procedere alla riqualificazione del paese.

È a fronte di questo investimento politico che adesso – con gli americani che hanno riattivato la panoplia di sanzioni contro Teheran dopo essere usciti dall’accordo e in questi giorni hanno messo in moto la macchina militare come forma di guerra psicologica contro l’Iran – che Rouhani cerca di proteggersi.

I GUARDIANI DELLA RIVOLUZIONE

Domani, il generale Hossein Salami, capo delle Guardie della Rivoluzione, guiderà una delegazione militare che parlerà in Parlamento della situazione di sicurezza del paese davanti a quelle che l’Iran definisce minacce americane (Teheran è in controffensiva politico-diplomatica e mediatica: davanti alle accuse americane di preparare azioni di disturbo contro gli interessi Usa, risponde che sono gli americani che cercano un casus belli per attaccarli).

Salami è il nuovo comandante dei Guardiani, che la guida suprema Ali Khamenei ha dovuto nominare per soddisfare le parti più reazionarie del mondo politico iraniano davanti alle azioni di pressione americane – il leader della teocrazia, sposando di fatto la linea Rouhani, ha anche lui scelto la strada stretta, il realismo è stato destabilizzato dalla rottura trumpiana dell’equilibrio creato dall’accordo sul nucleare quattro anni fa. I Guardiani sono il corpo militare teocratico che gli Stati Uniti hanno dichiarato organizzazione terroristica tre settimane fa, con una mossa che ha voluto esasperare le tensioni. Il corpo ha penetrazioni profonde nel tessuto economico e sociale del paese, e spesso si comporta da stato nello stato (qualcosa di simile è stato riprodotto con altri gruppi nella regione, in Iraq per esempio, o con gli Hezbollah in Libano, e non è un caso se gli Usa hanno aumentato l’ingaggio nelle scorse settimane anche contro i libanesi).

L’altro ieri, mentre Donald Trump faceva capire che in fondo tutta questa pressione contro l’Iran ha l’obiettivo finale di sfiancare il paese e riportarlo a negoziare con lui un accordo sul nucleare che potesse portare la sua firma e cancellare quella dell’odiato predecessore, Barack Obama, i Guardiani hanno pubblicamente risposto “no grazie: non tratteremo ancora”. Sostituendosi al governo, che invece non la vede in futuro come un’opzione da escludere.

IL RUOLO DELL’EDITORIA

Sabato, la corte statale per il controllo dei media del regime ha sospeso le pubblicazioni di Seda (voce), un settimanale riformista (o forse ancora, realista), considerato molto vicino alla linea della presidenza Rouhani. Il motivo della censura è legato all’ultimo numero uscito, all’interno del quale c’erano pezzi in cui si considerava come devastante la possibilità di una guerra con gli Stati Uniti. “Al culmine della guerra politica, economica e mediatica americana contro la nazione iraniana, una pubblicazione iraniana integra le operazioni dei media del nemico all’interno del paese “, ha scritto l’agenzia di stampa Fars, collegata ai Guardiani.

Rouhani sa perfettamente che all’interno del suo paese ci sono posizioni politiche, che rappresentano attualmente una minoranza, che trarrebbero vantaggio dal confronto, anche militare (l’importante che rimanga a bassa intensità) con gli Stati Uniti. E su questo giocano le proprie dinamiche per destabilizzarlo.

C’è un terreno su cui muoversi: dopo l’eliminazione del meccanismo di esenzioni decise dagli Stati Uniti che permetteva concessioni salvaguardando una buona parte delle esportazioni di petrolio iraniane dalle sanzioni Usa, maggio per ora è il primo in cui l’export di greggio dall’Iran sta toccando quota zero. Obiettivo americano, problema devastante per le casse di Teheran, che ha nel petrolio (e nel gas naturale) il suo principale asset economico. I reazionari dicono a Rouhani: l’America ti ha tradito, siamo ripiombati in crisi economica.

IL RUOLO DI AL JAZEERA E DEL QATAR

In questa situazione, è interessante anche leggere i movimenti regionali, decifrabili tramite l’andamento che assumono alcune notizie. Ieri al Jazeera è tornata a far circolare l’informazione che siano stati i Guardiani a spostare missili (balistici e da crociera) all’interno di piccole imbarcazioni, che era stata anticipata quattro giorni fa da un funzionario del Pentagono alla CNN giustificando la necessità di aumentare la sicurezza nel Golfo.

Al Jazeera è di proprietà del Qatar, che ospita nella base di Al Udeid l’hub del comando regionale del Pentagono che sta supervisionando le operazioni di di rafforzamento americano in questi giorni – che tra l’altro in buona parte sono manovre di routine, anticipate in alcuni casi, ma a cui l’amministrazione Trump ha voluto dare la forma di deterrenza specifica all’Iran.

Il Qatar soffre una posizione delicatissima: all’interno del sistema dei paesi del Golfo è stata isolata per essersi esposta troppo all’Iran – sarebbe non realistico l’opposto, visto che Doha condivide con gli iraniani il più grosso reservoir di gas naturale al mondo – mentre da Abu Dhabi e Riad si costruiva il nuovo ingaggio contro Teheran. Ma nonostante in questi ultimi due anni abbiano seguito in varie circostanze le priorità di questi due alleati, gli Stati Uniti non hanno mai mollato le relazioni con i qatarini per via di quel fondamentale avamposto logistico.

Ora Doha potrebbe giocarsi sulla crisi iraniana un tentativo di riqualificazione completa. Altra lettura: secondo al Arabiya (che è un media saudita e dunque un’altra parte in causa, perché Riad è spingente sulla posizione americana con l’Iran) diverse tribù irachene avrebbero chiesto ai propri membri di evitare di star troppo vicine ai luoghi in cui operano gli americani, perché potrebbero essere attaccati.

L’Iraq, che ha un accordo decennale con gli americani, è soggetto all’influenza e alla penetrazione iraniana per via che è un luogo in cui gli sciiti sono una minoranza potente, mentre i sauditi stanno cercando di spostare l’asse di Baghdad verso il Golfo. Qualche giorno fa, il segretario di Stato americano, ha cancellato senza preavviso un visita programmata a Berlino per riapparire, senza avvisi precedenti, in foto al fianco del primo ministro iracheno, con cui hanno discusso di Iran.

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