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Dalle tensioni con la Russia alla situazione in Nordafrica che si ripercuote nello spazio euromediterraneo, passando per dossier tecnologici ma anche di sicurezza come quelli cyber che vedono protagonista il colosso cinese Huawei. Sono questi alcuni dei temi che Luca Frusone (M5S), a capo della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato, ha toccato in una recente visita a Washington per un summit dell’assemblea tenutosi presso la National Defense University. Un appuntamento – spiega in una conversazione con Formiche.net – che rappresenta un momento prezioso per confrontarsi con i partner e, in primo luogo, con gli Stati Uniti, sui principali dossier di sicurezza che vedono oggi coinvolta l’Alleanza Atlantica.

Presidente Frusone, quali sono le priorità odierne e future al centro dell’agenda Nato dal punto di vista parlamentare?

A Washington se ne sono dibattuti diversi. Dalle tensioni con la Russia alla situazione in Nordafrica che si ripercuote nello spazio euromediterraneo, passando per dossier tecnologici ma anche di sicurezza come quelli cyber. Un argomento legato anche al rapporto con la Cina.

Partiamo da quest’ultimo tema. Washington è ai ferri corti con Pechino e chiede a tutti i suoi alleati un impegno forte per ridurre i rischi di sicurezza che deriverebbero dall’utilizzo di apparecchiature di fabbricazione cinese, come quelle dei colossi Huawei e Zte.

Per gli Stati Uniti è un problema cruciale, ma lo è anche per l’Italia. La questione cinese esiste ed ha a che vedere con la salvaguardia delle nostre informazioni sensibili – sia quelle governative sia quelle aziendali e degli utenti – ma anche col fatto che siamo in un sistema di alleanze euroatlantico e non possiamo pensare di procedere da soli senza pensare ai timori del nostro principale partner. Al tempo stesso vanno potenziate le nostre capacità nazionali e di controllo sulle infrastrutture non italiane, per essere da un lato autonomi e dall’altro protetti anche da altri tipi di interferenze che provengono da Paesi più vicini ma rispetto ai quali siamo anche competitor in alcuni specifici casi.

Qual è la linea del governo su questo tema? Anche l’Italia, come altri Paesi, dirà no alla tecnologia cinese in alcuni ambiti?

L’esecutivo non si è ancora pronunciato su questo argomento, ma una decisione sarà presa a stretto giro, se ne discute proprio in queste ore.

Restiamo sulla cyber security. Quali sono gli altri problemi da fronteggiare per l’Italia nel prossimo futuro?

Ce ne sono molti e tutti importanti. Dobbiamo assolutamente innalzare il livello di attenzione in tutti quegli ambiti della Pubblica Amministrazione che sono ancora troppo poco consapevoli della minaccia e della sfida che la cyber security pone al Sistema-Paese nella sua interezza. Si tratta di una questione non solo di sicurezza, ma anche competitiva. Dobbiamo capire che in un mondo connesso non è sostenibile avere anelli deboli nel senso informatico del termine. Negli ambiti, invece, che già sono avanzati da questo punto di vista e che, anzi, costituiscono il nostro livello di protezione – parlo in particolare dell’intelligence, del Comando Interforze per le Operazioni Cibernetiche e della Polizia Postale – sono necessari diverse modalità di arruolamento per attrarre i talenti informatici e naturalmente maggiori investimenti. Anche per questo, in ambito Nato abbiamo portato con il ministro alla Difesa Elisabetta Trenta e il sottosegretario del dicastero Angelo Tofalo l’idea che gli investimenti in cyber security debbano essere parte integrante dell’ormai famoso 2% di spese sul Pil da destinare alla difesa.

Gli Stati Uniti, soprattutto l’amministrazione Trump ma non solo, ricordano da tempo ai Paesi alleati di rispettare l’impegno del 2%. L’Italia intende onorarlo?

Sì, senza dubbio. Siamo decisi a raggiungere quell’obiettivo in modo progressivo, ma crediamo si debba fare. Stiamo però conducendo una battaglia per valutare le nostre spese non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo. L’Italia conduce uno sforzo gigantesco, riconosciuto e apprezzato, per quanto riguarda le missioni all’estero e la formazione militare. Oggi tutto ciò non rientra nel computo. Pensiamo invece che queste voci debbano essere parte integrante del bilancio, perché a comporlo non possono essere solo i sistemi d’arma, pure importanti. Inoltre, aggiungo che in questo Paese va fatto un grande lavoro, in parte iniziato, per creare una vera cultura della difesa tra i cittadini. Questa cultura può svilupparsi solo con maggiore dialogo e trasparenza sia da parte delle imprese del settore, sia da parte dello stesso governo che deve spiegare in modo chiaro a cosa servono gli investimenti fatti in difesa e sicurezza.

A proposito di sistemi d’arma e tecnologie militari e dual use, l’Italia è uno dei protagonisti della Cooperazione strutturata permanente dell’Ue, la Pesco. Come valuta questo progetto? E come viene visto in un ambito Nato allargato agli Usa?

Lo valuto positivamente, perché se ben fatto consentirà alla difesa dei Paesi europei di ridurre le spese e ottimizzare gli investimenti e alle nostre imprese del settore di avere un mercato più competitivo ma anche più ampio. Pensare invece di rinunciare all’apporto degli Stati Uniti o di costituire un esercito europeo in competizione o peggio in contrapposizione con quello americano lo considero invece sbagliato, oltre che utopistico.

Torniamo alla geopolitica. Uno dei fronti aperti nel cuore dell’Europa e sul quale l’attenzione della Nato è altissima è quello ucraino e delle tensioni con la Russia. L’Italia non ha sempre una posizione netta su questo dossier. La avrà?

Tentativi di influenzare il dibattito e il consenso con fake news e bot si sono registrati anche da noi. Detto ciò penso che il nostro Paese, come del resto è sua tradizione, pur non sconfessando la linea comune sulle sanzioni si stia ritagliando un ruolo fondamentale di “ponte” nel dialogo tra Washington e Mosca, che malgrado i toni alti che spesso si registrano continua fortunatamente a restare aperto. Non può esserci deterrenza senza dialogo, questo è bene ricordarlo. I rapporti positivi che l’Italia intrattiene sia con gli Usa grazie al feeling tra il presidente Donald Trump e il presidente Giuseppe Conte, sia con la Russia credo possano ancora una volta rappresentare per noi un fattore rilevante da prendere in considerazione.

Un ultimo punto che riguarda Italia e Nato è l’Hub di Napoli, divenuto centrale per la sicurezza del cosiddetto fronte Sud. Qual è il suo valore e la sua vocazione?

L’Hub di Napoli è importantissimo non solo perché aggiunge peso italiano e mediterraneo in seno all’Alleanza, che negli ultimi anni ha avuto il suo focus soprattutto a Est, ma anche perché può aiutare quella prevenzione dei conflitti e quell’anima pacifista che sono nel nostro dna e nella nostra Costituzione. Questo è importantissimo anche per la Libia e persino per le guerre in Medio Oriente. Non perché la Nato debba intervenire, anzi. Però il polo partenopeo può diventare uno strumento per fare politica e policy che non si traduca in interferenze interne nei Paesi della regione, ma che possa fornire un ruolo di supporto a chi ne ha bisogno e lo chiederà, nonché per accompagnare in modo ordinato percorsi condivisi di pacificazione. Anche questo contribuisce a creare quella cultura della difesa di cui c’è grande bisogno.

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