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Ormai le uscite, televisive e non, di Alessandro Di Battista sono attese con interesse: sia per le (spesso solo apparenti) bizzarrie che da esse vengono fuori, e che suscitano ilarità; sia per misurare gli umori e il livello di scontro all’interno del Movimento Cinque Stelle, che comunque resta il partito di maggioranza relativa. In particolare, l’intervento di ieri alla trasmissione di Lucia Annunziata era particolarmente atteso perché era stato programmato ad urne abruzzesi aperte ed era in qualche modo il culmine di una strategia politica che aveva reso necessario il suo immediato ritorno in patria col fine di tamponare il calo di consenso del Movimento che emergeva dai sondaggi.

In sostanza, individuato il motivo delle difficoltà nella delusione dell’ala più “rivoluzionaria” del Movimento, affiancare Dibba al vicepremier Di Maio avrebbe dovuto significare dare l’immagine quasi visiva di un “partito di lotta e di governo”: che non si sottrae alle responsabilità del governo, e anzi ne approfitta per occupare con i suoi uomini i gangli dell’amministrazione e dello Stato, ma non dimentica i cardini della sua strategia e gli impulsi anti-sistema che lo hanno generato.

A urne abruzzesi chiuse, si può dire che questa strategia non ha funzionato. O che forse la ragione del calo dei consensi era stata individuata male. Non solo, ma dai sondaggi sembrerebbe emergere che non solo le uscite di Dibba di questi mesi non hanno tamponato le falle, ma hanno addirittura allontanato altre persone da esso.

A mio avviso, ciò dipende da due fattori: da una parte, dal fatto che gli italiani in questo momento vogliono fare la “rivoluzione”, ma vogliono anche che il cambiamento sia tranquillo e non velleitario, cioè non vogliono avventure; dall’altra, dal fatto che un’alleanza fra diversi si può al limite concepire per un governo, ma non in un partito (per quanto partito-movimento). Quest’ultimo ha bisogno, per vivere, di un’identità definita, come quella che in qualche modo si è costruita la Lega. Detto altrimenti, il tandem non funziona e in ogni caso è difficile individuare un senso e un’identità compiuta in quel che fa e dice Dibba. Al limite va anche bene prendersela con la Francia, e soprattutto con il suo attuale presidente, ma in base a quale ratio non si prende una decisione precisa e netta su Maduro?

L’internazionalismo confuso non piace agli italiani, che pensano prima di tutto ai loro problemi quotidiani. Dibba non riesce purtroppo a trasmettere solidità: c’è un alone di infantilismo, forse non solo politico, in quel che fa e dice. E questo in politica alla lunga si paga. Probabilmente la via governativa di Di Maio è quella che più serve al Movimento, soprattutto se essa non lascia spazi, come in questi mese è avvenuto, alle vecchie classi dirigenti. Ma allora perché nemmeno questa via paga? Penso che molto dipenda anche dalla figura del vicepremier, che, in un tempo in cui la personalizzazione della politica è alta, sembra anche lui non essersi ancora fatto fino in fondo le ossa.

Tutto ciò è normale, anche se i tempi della politica sono oggi molto veloci. Non è un caso che riesce chi le ossa se le è fatte in anni di militanza, come Salvini, ma è riuscito a presentarsi, quale in effetti è, come un politico nuovo e non compromesso col vecchio. La politica non segue vie logiche, e tutto può ora accadere. Razionalmente però mi sembra che la via Dibba non dia grosse prospettive ai Cinque Stelle. I quali o lasciano maturare Di Maio e la nuova classe dirigente o cercano una soluzione esterna. In questo contesto, l’ipotesi Conte potrebbe affacciarsi di nuovo, tanto più che i consensi personali del leader sono in questo momento altissimi.

La carta Dibba non paga. L'internazionalismo confuso c'entra

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