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Xi Jinping è il capo di quella che è, probabilmente, la più preparata delle leadership politiche del mondo, come riconoscono gli stessi commentatori americani che ho incontrato in Cina lo scorso anno mentre scrivevo il libro che sta per uscire in Italia tra qualche giorno. Ed è stato saggio il segretario generale dell’ultimo, grande Partito Comunista, a scegliere nell’editoriale del Corriere della Sera i toni della storia, delle esplorazioni che hanno definito lo “spirito” dell’Occidente per secoli, evitando di entrare nei dettagli di un accordo con l’Italia che ha il difetto di non essere un accordo.

Basta leggerlo, del resto, il famoso memorandum of understanding che sta per essere firmato dal Presidente della Repubblica Popolare e dalla sua “controparte” (come la definisce il testo), per rendersi conto che le due pagine non contengono assolutamente alcun impegno (di natura legale o finanziaria, come precisa lo stesso documento nella sua parte conclusiva). Costituisce, poi, una vera e propria fake news (inventata e cresciuta non si capisce come) quella che vede l’Italia essere il primo Paese G7 che firma la Via della Seta (laddove tale affermazione risulta poco probabile persino dal punto di vista semantico).

In realtà un impegno assai concreto e vincolante sul grande progetto che dovrebbe cambiare il baricentro economico del mondo, è stato già preso dall’Italia molto tempo prima della visita di Xi Jinping. A prenderlo fu, nel luglio del 2016, il governo Renzi, quando con il ministro dell’Economia Padoan chiese per l’Italia e fu ammesso a partecipare al capitale dell’Asian Infrastructure and Investment Bank: l’Aibb è l’istituzione nata esplicitamente per essere il polmone finanziario della Via della Seta su iniziativa di Pechino che ne detiene il 30% del capitale. In quell’occasione, tuttavia, oltre all’Italia, entrarono nella grande banca che finanzia la Road and Belt Initiative, anche la Germania, la Francia ed il Regno Unito che, a differenza dell’Italia, detengono ciascuna, persino, una delle vice presidenze dell’istituto. Anche in quel caso ci fu una polemica feroce degli Stati Uniti e, però, ad essere rimproverati dall’amministrazione Obama furono gli inglesi e il ministro dello scacchiere di Cameron, George Osborne, dovette ribadire le convinzioni del proprio governo.

Non tanto diversa è la situazione per il dossier che scotta maggiormente e che è quello delle telecomunicazioni. Anche in questo caso, il Mou sposta poco: Huawei è in Italia dal 2004; ha realizzato reti di alta velocità in tutto il Mezzogiorno (usando fondi strutturali europei); e se in Australia e in Giappone ai cinesi è stato vietato di fornire la propria infrastruttura per abilitare la tecnologia 5G, Francia, Regno Unito e Germania, nonostante non poche discussioni e pressioni, hanno, finora, respinto ipotesi di divieto. Del resto, senza Huawei e Zte, rimarrebbero quasi solo Ericsson e Nokia come fornitori di tecnologie meno avanzate e, persino, gli americani rischierebbero di perdere il treno della nuova tecnologia.

In realtà, ciò che sta succedendo fa parte di una storia che è molto più lunga ed interessante della cronaca di questi giorni. È in corso una formidabile riallocazione di potere a livello globale e stiamo passando da un ordine mondiale con un solo centro nato dalla liquefazione dell’Unione Sovietica, ad un nuovo equilibrio nel quale alla superpotenza americana, si affianca – in maniera più o meno complicata – quella cinese. La nascita della Banca Asiatica per le infrastrutture come alternativa alla Banca Mondiale e al Fondo monetario internazionale (di cui gli Stati Uniti sono il massimo azionista) e alla Banca Asiatica per lo Sviluppo (di cui è il Giappone il socio maggiore) ne è l’esempio più nitido.

Ma per essere superpotenza non basta l’economia. Non basta alla Cina essere diventata l’economia più grande (se consideriamo il Prodotto interno lordo rettificato per il potere d’acquisto). Occorrono le idee, i simboli. Laddove paradossalmente l’unico Paese che riesce, ancora, a proiettare un’ideologia di se stesso sono gli Stati Uniti.
Ed allora, forse, è proprio questa la chiave della visita di Xi nella città che, duemila anni fa, la dinastia Han vedeva come meta finale di una Via della Seta che Marco Polo percorse al contrario. E, ancora una volta, dimostriamo di non averci capito quasi nulla dei cinesi per i quali – soprattutto a certi livelli – i simboli sono più importanti delle intese commerciali.

La visita in Italia è, dunque, parte di una grande operazione di comunicazione per un Paese che sta provando a compiere l’ultimo salto di qualità. L’ultima rischiosa trasformazione che lo porterebbe, dopo trent’anni di crescita ininterrotta, a dismettere i panni umili che vestiva il pragmatico Deng e a proporsi come soggetto capace di curvare la parabola di una globalizzazione di cui stiamo perdendo il controllo. All’Occidente spetta il compito di accettare la sfida sul piano delle idee; svegliandosi da quei complessi di superiorità che possono, silenziosamente, trasformarsi in senso di impotenza.

Xi Jinping in Italia, la chiave è tutta nei simboli

Di Francesco Grillo

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