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Basta una nave e l’intero sistema politico e di sicurezza entra in fibrillazione. Anche con l’oggettivo crollo degli sbarchi siamo solo a marzo e con il bel tempo eventi come quello della nave Mare Jonio, con 49 migranti a bordo di cui 12 minori, sono destinati a ripetersi. A fine giornata la nave è stata sequestrata e scortata nel porto di Lampedusa dalla Guardia di Finanza e la procura di Agrigento ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Stavolta la vicenda presenta delle novità che rendono più complicata la soluzione: una nave battente bandiera italiana; il non chiaro ruolo della Guardia costiera libica che sarebbe arrivata nel luogo del naufragio quando i migranti erano già stati recuperati dall’imbarcazione della Ong Mediterranea Saving Humans; una direttiva del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che evidenzia la necessità di punire chi viola le normative internazionali sul soccorso non facendosi coordinare da chi è competente (in questo caso la Libia) impedendone l’ingresso nelle acque territoriali italiane, con riferimento soprattutto alle Ong; l’invito a Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Guardia costiera, Marina militare ad “attenersi scrupolosamente alla presente direttiva” al fine di “prevenire, anche a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica dello Stato italiano, l’ingresso illegale sul territorio nazionale”.

Meno di 12 ore dopo la diffusione, la direttiva di fatto non è stata applicata perché si è scontrata con la realtà: la nave Mare Jonio è in acque italiane, controllata da Guardia di Finanza e Guardia costiera, è stata per ore alla fonda presso Lampedusa ed è cominciato un braccio di ferro che abbiamo già visto nei mesi scorsi. Nelle ore precedenti da un’imbarcazione delle Fiamme gialle era giunto l’ordine di spegnere i motori e dalla Mare Jonio avevano risposto che non se ne parlava proprio perché a bordo ci sono persone in gravi condizioni. Un plastico esempio dell’impossibilità materiale di “prevenire” l’ingresso. Militari della Guardia di Finanza, che ha anche compiti esclusivi di Polizia del mare, sono saliti a bordo per verificare tutto quanto è avvenuto, a cominciare dalla violazioni delle norme internazionali, visto che il salvataggio è avvenuto nelle acque Sar libiche, e dal non aver ottemperato all’alt intimato dall’imbarcazione della Finanza ai limiti delle acque territoriali italiane. L’esito ha portato al sequestro.

Salvini ha convocato un tavolo permanente con esperti e forze di polizia e le prime conclusioni hanno evidenziato che Mare Jonio, che aveva la Libia e la Tunisia come coste più vicine dell’Italia, ha disobbedito per due volte all’ordine della Finanza di spegnere i motori, scelta che viene paragonata a un posto di blocco non rispettato. Per questo il ministro auspica l’arresto dell’equipaggio come quando un automobilista forza il blocco di una pattuglia. Non c’è dubbio che la nave abbia violato di proposito sia le norme internazionali che l’ordine di un’autorità italiana e le conseguenze giudiziarie sono scontate senza che la polemica politica possa mettere in dubbio i fatti. Vale anche la pena ricordare che il ministro dell’Interno può impedire lo sbarco, salvo possibili conseguenze giudiziarie come nel caso Diciotti, ma non può chiudere i porti: un conto sono le parole di Salvini, un altro l’assenza finora di un atto scritto e motivato del ministro competente, Danilo Toninelli, che ordini al comando delle Capitanerie di porto la chiusura. Salvini definisce la Mare Jonio “un centro sociale galleggiante” perché il leader di questa organizzazione è Luca Casarini, storico esponente dei Disobbedienti al G8 di Genova che la considera infatti una piattaforma sociale e non una ong, e ribadisce che non cederà a pluripregiudicati. Il ministro non può che ribadire la sua linea: non sbarca nessuno a meno che non intervenga la magistratura, mentre Luigi Di Maio si limita ad assicurare che non sarà un altro caso Diciotti “perché non deve andare avanti per giorni”.

Essendo la Mare Jonio una nave italiana è impossibile chiedere all’Unione europea di contribuire all’accoglienza. Alla vigilia dal voto del Senato che dovrebbe confermare il no all’autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri di Catania, forse per la prima volta Salvini si rende conto che non basta una direttiva, che evidenzia anche il rischio di infiltrazioni terroristiche, per risolvere certe emergenze. La vera domanda che nasce da quella direttiva è: come si fa a prevenire l’ingresso nelle acque italiane di una nave Ong o di un’altra imbarcazione che non abbia ottemperato alle disposizioni internazionali sfuggendo al coordinamento di una qualunque Guardia costiera? Nel caso Diciotti, in quello Sea Watch e nei comizi delle ultime campagne elettorali regionali Salvini ha sempre detto “non sbarcano e non sbarcheranno”: sono tutti sbarcati sempre in Italia, come dovrà inevitabilmente avvenire anche per i 49 della Mare Jonio. Il pugno duro con l’Unione europea andrebbe usato non solo perché dovrebbe farsi carico di ben altri numeri di immigrati, ma anche per fare pressione sulle varie entità libiche e arrivare alla terza fase dell’Operazione Sophia, in scadenza il 31 marzo: consentire alla flotta di entrare nelle acque libiche e fare piazza pulita dei trafficanti. Invece in Libia e in Europa siamo deboli e una direttiva purtroppo non basta.

Direttiva ministro su controllo frontiere marittime

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