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Gli indizi sono tre e quindi fanno una prova. Mettiamoli dunque in fila e poi vediamo l’effetto che fa.

Primo: Matteo Renzi ha rotto il cordone ombelicale che ancora lo teneva legato al Pd consumando anche l’ultima frattura necessaria, cioè quella della separazione fisica dai suoi (ormai) ex compagni di strada. Lo ha fatto evitando di partecipare a tutte le riunioni autunnali del partito e scegliendo invece la Leopolda per il suo discorso più importante, con annesso annuncio di un programma di comitati civici che altro non sono se non l’avvio di una autonoma formazione politica.

Secondo: ha frantumato l’atavico tabù della sinistra morettiana e post-comunista (con nostalgia), aprendo il dibattito sui torti e le regioni del Cavaliere.

Così Renzi ha osato l’inosabile, vale a dire spende parole in positivo verso il Caimano, unico vero “cemento” della sinistra dal ‘94 a oggi (anzi a ieri, perché da quando il Cav ha perso vigore il Pd è entrato nella sua crisi più profonda).

Terzo: ha scelto il suo avversario di riferimento, cioè Matteo Salvini. Lo ha fatto per diversi motivi, che però vanno spiegati per cogliere il senso profondo del suo agire.

Renzi sceglie Salvini come antagonista perché così punta all’obiettivo più grosso, chiarendo che lui gioca solo in serie A. Ma lo sceglie anche perché convinto del fatto che la crisi d’identità dentro il M5S si consumerà senza bisogno di interventi esterni (che anzi rafforzano Di Maio) e lo sceglie perché in questo modo legittima anche se stesso, in quanto unico a impostare una sfida di reale alternativa innanzitutto sul piano della presenza sulla “scena”.

Insomma Renzi si “appoggia” a Salvini in questa fase, esattamente come Salvini ha fatto con Renzi per avviare la sua rimonta (2014/2015).

Tre indizi tre che provano (senza margini di errore) il fatto che l’ex premier si è già avviato verso la sua nuova sfida, che avrà nel 2019 l’anno decisivo, quello della (ri)partenza.

Presa la decisione però restano da affrontare diversi temi, su cui Renzi è al lavoro da mesi. Il primo riguarda l’elettorato potenziale cui rivolgere la nuova proposta. Renzi non vuole fare una cosa di sinistra, sia perché non ci crede ma anche perché fermamente convinto del fatto che lo spazio è altrove.

Ecco allora la voglia di corteggiare gli ambienti borghesi (magari con una spruzzata di verde) orfani di Forza Italia e di tutte le formazioni centriste naufragate negli anni: il “Renzi 2” vuole essere a capo di una formazione del 10-15 per cento, ad evidente carattere “centrista” (ma non moderato, perché i moderati non beccano voti), capace di essere influente e coesa al tempo stesso.

Poi c’è un tema che riguarda i cosiddetti “renziani”. Qui il discorso si fa meno prosaico ed assai più ruvido. E allora proviamo a dirla fuori dai denti: lui non ha alcuna intenzione di portarsi dietro tutti, perché pensa che “Renzi è meglio dei renziani” (è scritto tra virgolette ma non è una citazione). Cioè lui pensa che per essere vera questa operazione deve anche essere dirompente e che quindi non si può fare coinvolgendo l’intero “cucuzzaro” correntizio (a prevalente accento toscano). Chi ci sarà e chi no allo stato nessuno lo sa (nemmeno lui). Ma quello che è certo è che non ci saranno tutti.

Infine c’è un tema di consenso personale. Renzi sa di essere debole in questo momento, ma sa anche di essere un protagonista naturale delle vicende politiche (e non un comprimario). Proprio per questo alza la posta della sfida, scegliendo di guerreggiare con il n.1 assoluto, cioè Salvini. Ma sa anche che l’operazione non è di quelle con esito certo. Per questo rimugina, riformula, fa due passi avanti e uno indietro. In verità però ha poche alternative e per capirlo basta guardare alla sfida per la leadership nel Pd. Se c’è un vincitore di quella sfida che rappresenta la chiusura definitiva della stagione renziana quello è Marco Minniti, l’unico tra i contendenti in grado di voltare pagina consegnando Matteo R alla storia politica (seppure recente). Per questo Renzi vuole (ma anche deve) cambiare musica.
Quell’orchestra (il Pd) non è più la sua. E (forse) non lo è mai stata.

Matteo Renzi è pronto al grande passo (nel 2019)

Gli indizi sono tre e quindi fanno una prova. Mettiamoli dunque in fila e poi vediamo l’effetto che fa. Primo: Matteo Renzi ha rotto il cordone ombelicale che ancora lo teneva legato al Pd consumando anche l’ultima frattura necessaria, cioè quella della separazione fisica dai suoi (ormai) ex compagni di strada. Lo ha fatto evitando di partecipare a tutte le…

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