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Trump ha promesso di distruggere l’Isis. Manterrà la promessa”. Un sorriso solca il volto di Lindsey Graham all’uscita dalla Casa Bianca. La missione è compiuta, o così sembra. Un pranzo di due ore con il Presidente per portarlo a miti consigli ed evitare un disastroso, repentino ritiro dell’esercito americano dalla Siria. “Ancora non ci siamo riusciti. Ma come ho detto oggi siamo entrati nella linea dei dieci metri e il presidente comprende che dobbiamo finire il lavoro”. Senatore della Carolina, leader indiscusso del comitato per le forze armate del Senato, Graham è un repubblicano atipico che in soli due anni è riuscito a trasformarsi da feroce avversario di Trump a suo fidatissimo consigliere di politica estera. Accantonati la rivalità e gli insulti della campagna elettorale (Trump pubblicò il suo numero di cellulare, che fu invaso di messaggi e chiamate dei trumpeteers), assieme a certe tentazioni liberal (fu uno dei più strenui oppositori del Muslim Ban), il senatore è riuscito a infilarsi nelle intricate maglie della Casa Bianca trumpiana, spesso mettendo in ombra i generali a presidio dello Studio Ovale, dall’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry McMaster al segretario della Difesa fresco di dimissioni Jim Mattis. Quando Trump ha lasciato di stucco il mondo annunciando su twitter il ritorno a casa delle truppe americane dalla Siria Graham non ha esitato un attimo. “Un disastro, una macchia sull’onore degli Stati Uniti” ha sentenziato in un accorato discorso al Senato. Il repubblicano è sempre stato un convinto fautore della presenza americana in Medio Oriente, e in questi due anni ha impedito più di una volta scelte impulsive del presidente sull’Afghanistan e l’Iraq. La Siria non fa eccezione.

Di qui la missione: impedire a Trump di fare un regalo a Russia, Iran e Turchia senza ricevere nulla in cambio. Il tempismo scelto per il pranzo a Capitol Hill non è casuale. Mattis ha abbandonato il Pentagono in protesta con il presidente, e la poltrona in cima a Foggy Bottom rimarrà vacante fino al primo gennaio, quando il generale a quattro stelle lascerà ufficialmente il posto al suo successore (da molti considerato una nomina di transizione), l’ex n.2 di Boeing Patrick Shahanan. Asserragliato giorno e notte nello Studio Ovale per fare i conti con uno shutdown che si sta rivelando più lungo e doloroso del previsto, Trump è alle strette e ha poco tempo per la politica estera. Graham non ci ha pensato su due volte. “Abbiamo ancora alcune divergenze ma vi garantisco che il presidente sta pensando a lungo e intensamente alla Siria, a un modo per ritirare le nostre truppe senza venir meno ai nostri obiettivi di sicurezza nazionale” ha chiosato con evidente soddisfazione il senatore di fronte ai cronisti nella West Wing. Trump, ha aggiunto, “è preoccupato dell’influenza iraniana e dei potenziali pericoli per Israele derivanti da un’autostrada che porti armi da Beirut a Teheran”. Su twitter si è poi detto “rassicurato”, garantendo che il presidente procederà con il ritiro delle 2000 truppe stanziate in Siria a tre sole condizioni: “Che l’Isis sia distrutto una volta per tutte, che l’Iran non riempia il vuoto e che i nostri alleati curdi siano protetti”.

  È stato poi lo stesso Trump a tornare sull’argomento a suon di tweets. “Se chiunque, eccetto Trump, avesse fatto quel che ho fatto io in Siria, che era un casino in mano all’Isis quando sono diventato presidente, sarebbe un eroe nazionale” ha scritto la mattina del 31. “L’Isis è quasi del tutto sconfitto, stiamo reinviando lentamente le nostre truppe dalle loro famiglie, e nel frattempo combattiamo quel che ne rimane”. Quest’ultima specifica suona come una concessione alle richieste di Graham. Trump non ha però rinunciato a puntare i “generali falliti che non sono riusciti a svolgere il lavoro prima che io arrivassi”, rivendicando la coerenza con le sue promesse elettorali di due anni fa, quando ha “fatto campagna contro le guerre senza fine”. Che abbia successo o meno, il tentativo in extremis di Lindsey Graham non è isolato. Dai vertici militari si è alzato un coro all’unisono contro la scelta di Trump, apparentemente presa a seguito di una chiamata con il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Il numero uno dei generali di Trump, il capo dello Stato maggiore congiunto Joseph Dunford, ha fatto filtrare il suo scetticismo sulla decisione del presidente, peraltro appresa solo dai media perché escluso dal meeting ristretto di Trump con il segretario di Stato Mike Pompeo e Mattis. Il generale in ritiro Stanley McChrystal, già a capo delle forze Usa in Afghanistan, ha messo in dubbio la sconfitta dell’Isis sbandierata da Trump. Dubbi che aveva espresso lo scorso luglio il generale a quattro stelle in ritiro John Allen, già comandante della missione Nato Isaf e inviato speciale del presidente per la coalizione globale contro l’Isis, in un’intervista a Formiche.net: “Daesh è ancora vivo. Possiamo sconfiggerlo militarmente, ma se non cambiamo radicalmente le condizioni di vita di chi abita in quelle regioni l’idea di Daesh continuerà ad avere appeal sulle persone. In questo momento c’è bisogno di stabilità politica”. Che a Trump non vadano a genio i generali non è un mistero. Alla dottrina dell’interventismo, della stabilizzazione dei conflitti e della sconfitta del terrorismo islamico nel suo “backyard” per evitare di ritrovarselo in casa, Trump sembra continuare a preferire la dottrina Steve Bannon, suo ex capo stratega: tutti quegli uomini boots on the ground sono uno spreco di soldi e vite umane. Il pranzo con Graham potrebbe aver segnato, se non una svolta, almeno un rinvio della decisione. Si parla ora di una proroga della data di ritiro delle truppe da 30 a 120 giorni. E intanto il Pentagono fa sapere attraverso il suo ufficio stampa di essere “concentrato su un deliberato e controllato ritiro delle forze armate, prendendo tutte le misure possibili per assicurare la sicurezza delle truppe mentre finiscono di combattere ciò che rimane dell’Isis”.    

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