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A distanza di quasi tre mesi non si conoscono ancora i contenuti specifici della “manovra del popolo”. Qualche dichiarazione rassicurante da parte dei due leader della coalizione su un accordo trovato in extremis. Ma solo domani, sotto l’albero di Natale, capiremo la sorte che ci attende. Se vi sarà la tassazione extra sulle auto, nel momento in cui il crollo dei consumi ha messo in ginocchio l’industria automobilistica, in tutta Europa. A quanto ammonterà il taglio sulle cosiddette “pensioni d’oro”. Una sorta di rapina di Stato per chi, nel corso della sua intera vita lavorativa, ha pagato contributi pari al 33 per cento del reddito percepito e tasse con aliquota marginale al 43 per cento, senza contare le addizionali comunali e regionali, che, in alcuni casi, hanno portato il prelievo a sfiorare il 50 per cento. Il tutto in nome di una cattiva ideologia che, specie per le auto elettriche, rischia fare un regalo alla concorrenza estera. Soprattutto extra europea.

Si deve solo aggiungere che la complessa procedura ipergarantista che sovraintende alle regole del bilancio fin dal 1978 (la legge 468 e successive modifiche) è stata semplicemente messa al macero. Che fine ha fatto quel confronto sui numeri, con la chiamata degli esperti pronti a verificarli? Le contro deduzioni degli organismi indipendenti? Le valutazioni degli organi terzi e via dicendo? L’emendamento fantasma sarà presentato direttamente in Aula. Prendere o lasciare. Si ripete quanto avvenuto con le famose modifiche al Titolo V della Costituzione, negli anni passati. I cui disastri, ancora oggi, pesano sull’intera società italiana a causa della frammentazione delle competenze, la superfetazione di inconcludenti poteri regionali. E via dicendo.

Si può dire, senza timore di smentita che, a memoria d’uomo (almeno la nostra), mai una manovra economica di fine anno sia stata così rabberciata. Un Guinness dei primati. All’origine del caos, quell’impasto di velleitarismo e di pavidità che ha caratterizzato la strategia del governo giallo verde. Anzi più giallo che verde, avendo Di Maio, con lo “storico” intervento dal balcone di Palazzo Chigi, rivendicato una primazia, che la Lega, volente o nolente, gli ha concesso. Si era partiti con lo slogan “spezzeremo le reni” ai burocrati di Bruxelles, salvo cedere le armi quando lo scontro, com’era inevitabile, è divenuto più duro. Ed ecco allora di fronte al rischio sempre più concreto di una “procedura d’infrazione” liberare le colombe. Rivalutare la figura di Giovanni Tria, in precedenza dato in pasto al parlar forbito di Rocco Casalino.

Tutto bene quel che finisce bene: qualcuno potrebbe dire. Ed invece non è così. Con un’economia che rischia di avviarsi in una spirale deflazionistica, come indicato, solo da ultimo, da Banca d’Italia, è stato spento l’unico motore che poteva garantire un minimo di sollievo. Quel deficit di bilancio, (cattivo quanto si vuole, ma comunque deficit) che avrebbe fornito un minimo di spinta: quello 0,3 per cento di maggiore crescita, previsto dall’Istat, e che ora non c’è più.

Sul tavolo resta, in definitiva, solo una grande delusione. Da parte di chi ci credeva, innanzitutto, coloro che già si erano messi in fila, specie in tante città del Sud, per ricevere il salario di cittadinanza. E che ora avranno solo briciole. Ma anche da parte di chi ritiene, tuttora, che una politica di austerity sia la cosa più sbagliata che si possa fare. Per il suo intrinseco contenuto “pro-ciclico” avrebbe detto Mario Draghi, se chiamato al capezzale dell’economia italiana.

Si poteva evitare? Le premesse c’erano tutte. E non da ora. C’erano negli anni Enrico Letta, di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni. Ma né allora, né ora si è fatto alcunché per cambiare. Un continuismo che la dice lunga sulle velleità rivoluzionarie dei nuovi inquilini di Palazzo Chigi. Eppure Paolo Savona nel suo ultimo scritto (per una diversa “Politeia” europea) aveva individuato con esattezza il problema di fondo dell’economia italiana. Quel surplus, fin troppo consistente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che si traduce in un eccesso di risparmio, che non trova investimento in Italia. E di conseguenza defluisce verso l’estero, a beneficio soprattutto di Fondi d’investimento e broker internazionali. A quell’acquisizione teorica, tuttavia, non ha fatto seguito alcuna proposizione operativa.

Se era vero, infatti, che il problema principale fosse quello di poter utilizzare produttivamente, ogni anno, circa 50 miliardi di euro (a tanto ammonta l’avanzo con l’estero), su questo tema si doveva lavorare tralasciando il resto. A partire dal salario di cittadinanza ed anche dalla riforma della legge Fornero. Per planare con forza su due argomenti principali: investimenti pubblici e riforma fiscale. Quest’ultima, in particolare, poteva essere la moneta di scambio con coloro ch’erano sul piede di andare in pensione. E che forse avrebbero atteso un po’ di più se la loro busta paga, al netto delle tasse, fosse divenuta più consistente. Grazie ad un forte sgravio fiscale.

Convincere i 5 Stelle a rinunciare alla loro bandiera – è fin troppo facile rendersene conto – sarebbe stato impossibile. Ma l’indicazione per un futuro immediato resta in campo. Il Paese ha bisogno di riprendere lo slancio necessario. Le risorse potenziali ci sono e possono essere utilizzate per una politica produttivistica. Occorre solo un equilibrio politico che ne supporti la realizzazione. Il contratto di governo, che è stato sottoscritto, rispondeva ad una situazione di emergenza che, con il passare dei giorni, è divenuta sempre più drammatica. Facendo emergere le contraddizioni che ne erano alla base. Si tratta solo di prenderne atto ed assumere le decisioni conseguenti. Ci vorrà, naturalmente, il tempo necessario. Ma occorre fare presto. Altre strade sono precluse.

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