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Ieri si è conclusa una due giorni di colloqui sulla pace in Afghanistan che si è svolta a Mosca, al President Hotel. Il Cremlino ha invitato al tavolo sia i ribelli islamisti talebani, sia una delegazione politica afghana guidata dall’ex presidente Hamid Karzai (ultimamente critico con il ruolo americano). Attenzione: la presenza di queste due controparti non è un dettaglio, ma una raffinatezza di politica estera con cui Mosca ha provato a superare gli Stati Uniti sul dossier. Washington ha chiuso due settimane fa, dopo giorni di riunioni in Qatar (dove i Talebani hanno una sede diplomatica informale), un accordo quadro con i Taliban, ma alle negoziazioni non era presente l’Afghanistan come forma politico-governativa, perché i ribelli considerano l’esecutivo e i suoi sostenitori “fantocci” in mano agli americani – che li hanno accontentati, quasi avallando la visione, non invitando il governo di Kabul.

Dal dialogo russo esce una traiettoria di pace che ha un passaggio strutturale: il ritiro delle forze americane dal paese (dove si trovano da diciotto anni, per effetto di una missione Nato attivata sotto la collegialità dell’alleanza contro il gruppo islamista, accusato di aver dato riparo ai vertici di al Qaeda, organizzatori della strage del 9/11). Il secondo punto centrale per chiudere la guerra è il riconoscimento da parte dei talebani di alcuni diritti civili basilari inclusi nella costituzione e, diciamo così, distanti dall’interpretazione sharitica che il gruppo ha di legge e vita (un esempio: l’equiparazione dei sessi e in generale i diritti per le donne).

Le riunioni moscovite sono state un tentativo russo di dare maggiore solennità ai dialoghi e superare gli Stati Uniti, ma in realtà la presenza di quei “prominenti afghani” era poco di più che un fattore estetico, e la base negoziale è proprio l’accordo di pace americano, sia nei punti che in forma e sostanza: tutto gira attorno a uno schema che prevede la deposizione delle armi da parte dell’organizzazione un tempo guidata dal Mullah Omar, il riconoscimento di alcuni principi statuali sotto il governo afghano, e la garanzia di non dare più riparo ad altri gruppi terroristici (anzi: gli americani pensano a un ruolo talebano per combattere le crescenti infiltrazioni jihadiste collegate allo Stato islamico).

Infatti nemmeno in Russia erano presenti delegati del presidente Ashraf Ghani, e i nove punti di concordanza scritti nel documento conclusivo difficilmente avranno peso per essere implementati dal governo, perché – come fa sapere il portavoce della presidenza – legittimare il dialogo con i talebani senza rappresentanti dell’esecutivo significa “minare la fragilità dello stato afghana”. “Rispettiamo le opinioni di tutte le parti della società, compresi i politici”, ma la leadership del processo di pace spetta all’autorità del governo afghano”, ha detto.

Parlando con i giornalisti, è stato anche il vice-capo della delegazione talebana presente a Mosca, Abdul Salam Hanafi, a spiegare che quello che per loro conta sono i negoziati con gli americani. Hanafi ha pure detto che a Doha è stata decisa anche una calendarizzazione di massima sul ritiro americano dal Paese. Dei 14 mila soldati statunitensi, circa la metà lascerà l’Afghanistan entro fine aprile, ha detto il talebano.

E questa sarebbe un’informazione importante, in grado di creare una problematica tattico-logistica anche per gli alleati americani schierati sul suolo afghano, per esempio l’Italia, dove c’è una componente politico-governativa che freme per far rientrare i soldati, anche se ancora non sono stati definiti assetti e piani futuri per il rientro dei 900 militari operanti all’interno della missione della Nato “Resolute Support” e non si è nemmeno avviata una discussione parlamentare sull’argomento.

Sia l’ambasciata statunitense, che il comando militare, da Kabul, e poi il delegato per la trattative Zalmay Khalizad, hanno subito smentito la dichiarazione di Hanafi: non ci sono tempi, e comunque non saranno velocissimi, dicono: “La nostra missione non è cambiata. Non abbiamo ordine di ritirarci”, ha spiegato il colonnello Dave Butler, portavoce delle forze americane in Afghanistan.

C’è tuttavia una volontà verso un rientro rapido, che potrebbe anche essere frutto di una necessità politica. Il presidente Donald Trump pare voglia sfruttare l’occasione dei negoziati per riportare a casa le sue truppe, che considera impegnate in “guerre senza fine” che – insieme alle indagini su di lui – infastidiscono il “miracolo economico americano”, come ha spiegato durante il Discorso sullo stato dell’Unione. Per Trump il ritiro è una promessa elettorale, e una questione per certi versi ideologica. L’Afghanistan, come la Siria, sono impegni costosi che – per come vede Trump il ruolo negli Stati Uniti nel mondo – non danno ritorni (economici).

Il Congresso ha provato a bloccare gli slanci della Casa Bianca con un emendamento a una legge in cui si chiede di evitare “ritiri precipitosi”, ma si tratta di una misura formale che il presidente può oltrepassare. Ora Trump spiega che ridurre la presenza “mentre progrediamo con i negoziati”, permetterà agli Stati Uniti di “concentrarsi sull’anti-terrorismo”. Ma dall’Afghanistan escono posizioni diverse: il presidente Ghani ha già inviato una lettera alla Casa Bianca chiedendo di usare massima cautela. “Spero che il ritiro proceda lentamente”, ha detto al New York Times Fawzia Koofi, membro del parlamento afgano e una delle sole due donne presenti ai colloqui russi. Molti in Afghanistan temono che il ritiro americano (e quello conseguente delle altre forze occidentali) possa riprodurre uno schema simile al 1989, quando l’Urss lasciò il paese che cadde poi in mano agli islamisti fino all’imposizione della dittatura talebana nel 1996.

 

afghanistan

Afghanistan, i russi dialogano con i talebani cercando di scavalcare gli americani

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