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I primi cento giorni del governo Conte dovrebbero segnare la fine della sua luna di miele. Almeno stando ad una tradizione sociologica consolidata. Ma l’Italia non sono gli Stati Uniti. E questa fase, particolarmente complessa, non risponde ai canoni della tradizione. Per cui ogni valutazione diventa difficile, se si rimane nel solco dell’esperienza passata. Da un punto di vista operativo, infatti, i risultanti sono stati quanto mai scarsi. Pochi i provvedimenti approvati, se si esclude il decreto dignità. Qualche decisione di carattere amministrativo. Molti rovelli, come quello sull’Ilva, conclusasi per fortuna in modo favorevole o la drammatica vicenda del crollo del ponte di Genova. Da questo punto di vista il governo gialloverde non è stato fortunato. Si resta in attesa della legge di bilancio, la cui redazione sarà un po’ la cartina al tornasole. Solo allora si vedrà in che modo il contratto di governo potrà essere finanziato e realizzato.

Questi cento giorni una cosa, comunque, l’hanno dimostrato. L’accordo sottoscritto aveva la forma di un contratto, ma non la sostanza. A voler rimanere sul terreno giuridico, era solo una “dichiarazione d’intenti”: da sviluppare nel corso della legislatura, tenendo, tuttavia, conto dei vincoli che, di volta in volta, si sarebbero manifestati. E dell’evolversi dei rapporti di forza tra i due protagonisti insieme al governo. Non alleati, ma semplicemente partner all’interno di un comune progetto: per altro semplicemente abbozzato.

Si spiegano così molte incongruenze. A partire da un eccesso di comunicazione, volta a favorire il nascere di nuovi equilibri. Nonché i distinguo in quei rari casi in cui, come per il decreto dignità, si è effettivamente operato. Per non parlare poi delle dichiarazioni di intenti – rinazionalizzazioni, Daspo per i corrotti, intervento sulle cosiddette “pensioni d’oro” e via dicendo – che hanno marcato profondi dissensi e dato adito ad un senso di incertezza complessiva che si è immediatamente riflessa sul sentiment del mercato. Come mostra l’andamento degli spread, sempre più dipendente dal tono delle dichiarazioni dei vari responsabili governativi.

Era forse inevitabile. Le differenze programmatiche tra le due componenti del governo sono profonde. Costringono entrambi a non abbassare la guardia. E marcare, con le proprie dichiarazioni, il territorio. In attesa che il nuovo quadro contabile possa stabilire, a breve, come dividere pani e pesci. Per dimostrare al proprio elettorato di riferimento che l’intesa regge e che il cambiamento, comunque, va avanti. Anche se con i tempi condizionati dalla presenza della Vecchia Europa, con la quale occorrerà fare i conti da qui a qualche mese.

Lo scotto pagato è stato quello di risultati in larga misura deludenti. Almeno sul fronte dell’effettiva capacità di governo. Ma allora – viene subito da dire – come si spiega il successo del governo nell’immaginario collettivo? Quel gradimento espresso dal 60 – 70 per cento degli intervistati, nel susseguirsi dei sondaggi? Le spiegazioni possono essere varie. Forse la più importante è lo zeitgeist. Quella tendenza culturale predominante in una determinata epoca che caratterizza lo spirito del tempo. E che si manifesta nella critica radicale degli stereotipi del vecchio perbenismo. Non è certo un caso se in tutti i Paesi europei, compresa la Svezia, l’insofferenza verso l’anarchia dei movimenti migratori sia fortemente cresciuta.

Il tema vero non è il rigurgito razzista, come spesso si dice in modo consolatorio. Ma la percezione netta che una parte dei pubblici poteri, su indicazione delle forze politiche dominanti, in passato avevano fatto più di un passo indietro, abbandonando i più deboli. Costretti a subire, tra l’altro, le continue ramanzine di coloro che per censo, cultura o lignaggio, guardavano al fenomeno dall’alto delle proprie convinzioni. Che poco avevano, tuttavia, a che vedere con la reale condizione dei luoghi che generavano il conflitto.

Ed ecco allora spiegato, perché la sinistra vince nei quartieri bene delle grandi città, mentre crolla in periferia. O perché lo scontro sui temi dell’emigrazione diventa così virulento da impedire qualsiasi contatto di tipo bipartisan. Matteo Salvini è stato il più lesto di tutti a cogliere questo cambiamento di fondo nella pubblica opinione. Sarebbe interessante andare a fondo e capirne il perché. Ma quest’interrogativo riguarda le caratteristiche stesse del Movimento di cui è leader. I cui militanti appartengono, in stragrande maggioranza, a quella classe media che i precedenti Governi hanno utilizzato come un bancomat, nell’illusoria speranza, di combattere la crisi.

Sta di fatto che lo scontro sui migranti non poteva non determinare un affondo molto più consistente nei confronti dell’intera Europa. Le cui inadempienze si sono dimostrate talmente evidenti da risultare indifendibili e capaci di far emergere quanto di falso c’è in una retorica volta a dipingere quella realtà come il migliore dei mondi possibili. Tesi da sempre abbracciate, seppure in modo a volte tartufesco, da molti europeisti d’antan. Ne è, pertanto derivata, una politica – la cosa può anche non piacere – che ha una sua coerenza e che di conseguenza ha premiato colui che, con maggiore determinazione, l’ha fatta propria.

Semplice opportunismo elettoralistico? Come sono soliti dire alcuni esponenti della sinistra nei confronti di Matteo Salvini. Forse i problemi sono più complessi. Riguardano i temi del consenso e della rappresentanza: che sono poi gli elementi fondanti di qualsiasi democrazia. Un leader è tale se rappresenta il proprio popolo. Se ne condivide le ansie e le preoccupazioni. Se ne cattura i sentimenti più profondi. Non per farsi guidare, ma per costruire su questo retroterra una prospettiva realistica che tenga conto di tutti i condizionamenti interni ed internazionali che ne condizionano gli sviluppi.

Finora la Lega, stando almeno agli ultimi sondaggi, è riuscita a rovesciare i rapporti di forza che erano alla base del contratto di governo. Onore al merito, ma anche nuovi oneri per i suoi esponenti. Soprattutto l’obbligo di non sbagliare. Quest’azione ha, naturalmente, rafforzato l’intero governo e messo all’angolo le due opposizioni di destra e di sinistra. Non è detto che durerà all’infinito. Ma, almeno fino ad oggi, questo è stato il risultato. La luna di miele si è conclusa, almeno dal punto di vista temporale. Ma non è detto che non possa continuare. Dipenderà soprattutto dal suo leader se saprà tesaurizzare i successi fin qui ottenuti e disattivare quelle clausole del vecchio contratto pensate soprattutto da altri per colpire gli elettori del proprio fronte.

Il contratto di governo è in mano a Matteo Salvini. Ecco perché

I primi cento giorni del governo Conte dovrebbero segnare la fine della sua luna di miele. Almeno stando ad una tradizione sociologica consolidata. Ma l’Italia non sono gli Stati Uniti. E questa fase, particolarmente complessa, non risponde ai canoni della tradizione. Per cui ogni valutazione diventa difficile, se si rimane nel solco dell’esperienza passata. Da un punto di vista operativo,…

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