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“L’Epifania tutte le feste porta via” recita l’adagio popolare, prendendo atto della fine del ciclo natalizio e lasciando presagire i rigori penitenziali della prossima quaresima. Trattasi, in questo caso, delle festività religiose, giacché tutte le altre – primo, in ordine di comparizione, il carnevale – continuano ad affollare giulivamente il nostro calendario, in barba ai tanto esecrati ministri della serietà (altri dicono dell’austerità). “Panem et circenses” ribadirebbe Giovenale, anche e soprattutto ai nostri giorni.

Chissà, però, se l’Epifania riuscirà a spazzar via pure le polemiche che hanno amareggiato le feste appena trascorse: presepe sì anzi che no, il Nome del Bambinello censurato sulle labbra degli scolaretti oppure cantato a squarciagola dai loro genitori sotto le finestre delle scuole, dirigenti scolastici e insegnanti a dottoreggiare sulla valenza rappresentativa per la storia dell’Italia repubblicana delle canzoni rosse sostituite a quelle del bianco Natale, politici – di quelli che alla roulette di certo punterebbero sul colore opposto (sia al rosso che al bianco) – impegnati a salvaguardare la persistenza delle antiche devozioni anche se in luoghi e momenti, come appunto la scuola, in cui sarebbe giusto studiarne il significato culturale più che praticarle parodiandone l’afflato cultuale.

Proprio tra culto e cultura corre la trincea in cui i guastatori delle feste si sono affrontati, rinfacciandosi a vicenda gli articoli della Costituzione e i commi delle normative vigenti nella pubblica amministrazione. Niente culto sul posto e nell’orario di lavoro, al limite solo cultura, se questa costituisce il lavoro da fare in spazi e tempi come quelli della scuola: una regola molto buona, se non inducesse qualcuno a presumere che la cultura sia soltanto un lavoro mal stipendiato dallo Stato e se non desse adito talvolta all’isteria ideologica. Deriva, quest’ultima, in cui scivolano anche i partigiani dell’altro fronte, per i quali non è veramente Natale se non si cantano tutto il giorno e in ogni dove le tradizionali novene, come in Sicilia quelle composte da Binidittu Annuleru, alias Antonio Diliberto, prete monrealese, poeta e teologo, le cui opere nel Settecento si diffusero in gran parte dell’Isola, o come quelle che risalgono – in altre parti del Meridione italiano – al magistero spirituale di sant’Alfonso Maria de’ Liguori: ai custodi zelanti delle consuetudini basta replicarle in ogni caso, anche senza sapere nulla del loro autore, del tempo in cui visse e operò, di ciò che di quell’epoca rimane nel nostro modo di vedere il mondo, di ciò che invece è irrimediabilmente tramontato. Sarebbe un bene che si sapesse qualcosa di tutto ciò tra le file dei tifosi della novena. Ma anche tra le file di quelli che sentono novena e pensano a qualche mitologia aborigena con la quale oggi non avremmo più alcun collegamento di senso.

Il fatto è che l’etimo delle due parole – culto e cultura – le accomuna intimamente: solamente nella senescente modernità, purtroppo vissuta male dall’una e dall’altra parte della trincea, esse hanno fatto cortocircuito, seguendo la stessa sorte di altri due termini strettamente imparentati quali creaturalità e creatività. Così si pretende di fare cultura distillandola da ogni sedimento religioso e da ogni fondamento spirituale e restando inconsapevoli delle sue radici bibliche, un po’ tutti dimentichi della lezione di Northrop Frey, il quale già decenni fa illustrava il Grande Codice da cui la cultura occidentale da millenni attinge i suoi simboli, le sue immagini, le sue forme, i suoi colori, i suoi proverbi e finanche i suoi slogans. Come si faccia, per esempio, a tenere l’ora di storia dell’arte su Giotto e sugli altri maestri della pittura italiana ed europea senza gettare l’occhio sui vangeli, è davvero un mistero. E, del resto, Giotto e gli altri spesso non sono conosciuti manco di nome dai ragazzi nelle nostre scuole. Come non si studiano i versi di Dante e neppure quelli di insospettabili contemporanei come Montale (si pensi a una sua potente lirica su Zaccheo il pubblicano). Non si studiano perché ci si rifiuta di tener conto dell’insurrogabile componente “religiosa” che di tali opere d’arte è costitutiva.

D’altra parte nelle sagrestie si organizza con fervore la celebrazione del culto, ma rinunciando al suo spessore culturale – che sarebbe da recuperare in ambiti pastorali come la catechesi e altre analoghe attività formative – e perciò riducendolo a ripetitivo ritualismo o ad anacronistico devozionismo, mentre appena accanto, dall’altra parte della parete, le chiese rimangono sempre più vuote persino nelle solennità liturgiche più importanti. Ci stiamo ormai abituando allo scenario che Marcel Proust descriveva in un articolo apparso su “Le Figaro” nel 1904, intitolato “La mort des cathédrales”, con i turisti che subentrano ai fedeli tra le arcate e nelle navate delle chiese.

In questo sì le scuole e le sagrestie si fanno concorrenza: le prime inseguendo una cultura senz’anima e le seconde contentandosi di un culto non pensato (e non ripensato), tanto poi c’è Benigni che commenta in tv la Divina Commedia e i Dieci Comandamenti, oltre che la Costituzione.

I magi, scienziati d’altri tempi che non disdegnarono di farsi pellegrini sino a Betlemme, tutti e tre insieme icona evangelica sapientemente multietnica, ci insegnino il valore di una cultura che sa chinarsi in omaggio a chi è piccolo e desideroso solo di crescere “in sapienza, età” e – perché no? – anche in “grazia” (Lc 2,52).

l'epifania

Epifania, nei re magi l'intreccio tra culto e cultura

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