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È davvero possibile, nella società tecnologica di oggi, far coesistere piattaforme social, libertà di espressione e un’informazione corretta? E se sì, con quali accortezze e metodologie? Ma, soprattutto, con che ruolo da parte dello stato, dei colossi del Web e della società civile? Il tema della costruzione partecipata di una “democrazia 2.0”, che possa contenere al suo stesso interno gli anticorpi necessari per riconoscere e arginare l’ondata di fake news che sempre più popola la Rete, è stato al centro della nuova edizione, la settima, del Warsaw Dialogue for Democracy, appuntamento organizzato dal 2012 dal ministero degli Esteri polacco in collaborazione con altri attori istituzionali e privati, come ong.

COME CAMBIA L’INFORMAZIONE

Globalizzazione, avvento dell’era digitale e pervasività di internet hanno portato in breve tempo a un cambiamento significativo nelle abitudini di consumo di media, rendendo la comunicazione “many to many” una realtà. L’esplosione stessa di network sociali come Facebook e Twitter, si è più volte sottolineato, è ritenuta da molti, in particolare i cosiddetti Millennials, come una grande possibilità per aumentare l’accesso dei cittadini a notizie altrimenti poco visibili o del tutto nascoste. Ciò è particolarmente vero in Paesi non democratici – ad esempio è stata cruciale per lo scoppio delle Primavere Arabe -, dove la censura dei mezzi di informazione è una pratica quotidiana e sistematica (entrambi argomenti toccati sia in un panel su giovani e tecno-democrazia con esperti dell’Osce, sia nella presentazione del report “Best practice in Community of Democracies”).

GLI EFFETTI DELLA “BOLLA”

Tuttavia ogni moneta ha due facce. E questo caso non fa eccezione. A fianco delle già citate opportunità, si annidano rischi di cui si parla sempre più spesso, ma per contrastare i quali si è fatto ancora troppo poco. Da qui il dialogo proposto al forum di Varsavia, proprio quest’anno in cui cade il 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Quelli della “mis” (diffusione involontaria) e della “dis”-informazione (creazione deliberata di notizie false) sono problemi urgenti per le società democratiche – hanno evidenziato diversi relatori –  perché rendono possibili svariate forme di manipolazione, con effetti concreti e pericolosi come la sfiducia nei media e persino nella democrazia. Come mai? Spesso le fake news – lo indicano molti studi – sono viste come “più interessanti” dei fatti e si diffondono più in fretta. Attraverso camere dell’eco, “bolle” informative, algoritmi e altri trucchi utilizzati con sapienza, le piattaforme social possono essere il mezzo per una distorsione della realtà. Con rischi rilevantissimi, come dimostrano casi come quello di Cambridge Analytica e, in un senso più ampio, l’inchiesta sulle interferenze durante le presidenziali Usa, il cosiddetto Russiagate (che forse, hanno detto alcuni esperti intervenuti, serviranno però da “catalizzatori” per future scelte di governance positive).

IL RUOLO DI MEDIA, PIATTAFORME, GOVERNI E UTENTI

In questo scenario, si è evidenziato durante il convegno, manca ancora la definizione di precise responsabilità che vadano oltre la mera gestione e protezione del dato. Qual è (o meglio, quale dovrebbe essere) il ruolo dei media, degli editori e degli operatori dell’informazione? Quale quello delle piattaforme (sono da considerarsi semplici “siti” o anch’essi editori, almeno per metà?)? Quale quello della politica e dei governi? E quale, infine, quello degli utenti? Tutti, si è detto, non possono sfuggire a un impegno che deve contraddistinguere, molto di più rispetto al passato, il ciclo delle notizie. I primi sono banalmente chiamati a esercitare un controllo su ciò che viene da loro appreso prima di essere pubblicato (un fact-checking a monte) e non cedere alla tentazione di ottenere maggiore traffico con titoli sensazionalistici per generare click-baiting. Le seconde devono abbandonare la logica del “quel che viene pubblicato e come i dati vengono utilizzati non è affar mio, purché si paghi per la pubblicità o la piattaforma si popoli”, ma capire che sebbene la linea tra controllo e censura possa essere molto labile, esercitare un monitoraggio su linguaggio usato e contenuti è fondamentale (e i social network lo stanno facendo sempre di più). I terzi hanno invece il dovere di creare un sistema di regole armonizzate a livello internazionale (con sanzioni, se necessario) che tenga insieme libertà e sicurezza, e di incentivare i necessari momenti di formazione digitale  in ambito scolastico e sociale.  I quarti, infine, gli utenti, vengono spesso considerati l’anello apparentemente più debole della catena, ma anche quello che può determinare un vero cambiamento attraverso le sue scelte di condividere e premiare informazioni verificate provenienti da fonti in grado di guadagnarsi, giorno dopo giorno, l’autorevolezza richiesta.

Cosa serve per una (vera) Democrazia 2.0. Il forum a Varsavia

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