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Nella Ue l’Italia non fa sentire abbastanza la sua voce. Perché? Eppure il nostro voto pesa istituzionalmente quanto quello di Francia e Inghilterra, poco meno di quello della Germania e più di quello della Spagna. Il voto dell’Italia e della Grecia insieme superano di gran lunga quello della Germania. Istituzionalmente a Bruxelles siamo un poids lourde ma contiamo come una lambretta.

Ho capito il perché di questo mistero nel lontano 2002 quando ebbi l’incarico di organizzare la formazione della task force che avrebbe gestito il semestre di presidenza italiana nel 2003. Vi racconto come è andata.

Chiamai a tenere i corsi non dei docenti universitari ma i funzionari di nazionalità italiana del Consiglio e della Commissione Ue. Questi funzionari mi manifestarono subito la loro disponibilità e la loro felicità, quasi incredula: era la prima volta che il loro Paese li contattava, a differenza di quello che fanno gli altri Stati Membri Ue con i funzionari delle rispettive nazionalità. Ma la cosa più interessante avveniva durante lo svolgimento dei corsi: i funzionari italiani di Bruxelles accusavano senza alcuna eccezione e violentemente i loro colleghi di Roma di essere sistematicamente assenti nelle sedi dove si prepara la legislazione europea.

Orbene dove si prepara la legislazione europea? Non nelle riunioni plenarie della Commissione e nemmeno nelle riunioni del Consiglio. La proposta della Commissione viene messa a punto dai così detti “comitati di esperti”, dove gli esperti non sono dei ricercatori di chiara fama ma i funzionari nazionali che nel loro Paese si occupano dell’argomento. Nelle riunioni di questi comitati la sedia italiana è sistematicamente vuota. Quando, eccezionalmente, il nostro funzionario c’è, capita quasi sempre che non sa l’Inglese (non si lavora con l’interpretariato), per non parlare del fatto che, di solito, arriva alla riunione in fine mattinata (dopo essere arrivato all’aeroporto di Bruxelles, deve prima passare alla sede della Rappresentanza Permanente Italiana per farsi vidimare il modulo di presenza e, poi, al Monte dei Paschi per farsi pagare la diaria). Alle cinque del pomeriggio deve poi ripartire per non perdere l’ultimo volo per Roma Molte decisioni maturano la sera a cena..

Le proposte di direttiva a regolamento messe a punto da questi gruppi di funzionari nazionali vengono poi passati alla Commissione che li iscrive all’ordine del giorno di una seduta plenaria. Se entro 48 ore dalla riunione non pervengono richieste di modifica o di chiarimenti la proposta viene ritualisticamente considerata approvata. La proposta passa poi al Consiglio, o meglio ad uno dei 267 gruppi di lavoro (ognuno formato da un funzionario di ogni Stato membro) che la tratta. Se nel gruppo di lavoro si raggiunge un accordo sulla proposta, essa viene messa all’ordine del giorno del Consiglio e non viene discussa ma approvata ritualisticamente. Se non si raggiunge un accordo il dossier è passato al Comitato dei Rappresentanti permanenti (Coreper). Se qui si raggiunge un accordo la proposta viene messa all’ordine del giorno del Consiglio solo per una approvazione ritualistica.

Solo poco meno del 5% delle direttive e regolamenti approvati vengono effettivamente trattati dalla Commissione e/o dal Consiglio. Nei gruppi di lavoro vige il motto:”pooling of authority”. Le autorità degli Stati Membri devo essere messe insieme e trovare una mediazione che soddisfi tutti. Orbene in questi snodi cruciali noi siamo assenti.

Qui bisogna pensare che le istituzioni moderne devono produrre norme su argomenti altamente tecnici, sui quali il rappresentante politico eletto non ha nessuna competenza. In tutti gli stati moderni si assistono a fenomeni simili a quelli che ho appena descritto relativamente ai processi decisionali Ue. La differenza tra Bruxelles e le Capitali nazionali consiste nel fatto che questa attività tecnica, preparatoria e sostanziale dei tecnici a Bruxelles è estremamente trasparente. Tutti i gruppi di esperti sono raggiungibili sul web. Qui si trovano i nomi ed i cv dei rispettivi membri, l’agenda dei lavori, i verbali delle riunioni.

A seguito della risciacquata di capo data dai funzionari di nazionalità italiana della Commissione e del Consiglio ai nostri dirigenti, fu istituito nel 2003 un gruppo di lavoro per stendere una legge (anche da noi le leggi non vengono scritte dai parlamentari) per regolamentare la presenza dei funzionari italiani nella fase di preparazione della legislazione europea. Questo gruppo ha dato luogo alla così detta Legge Buttiglione cioè la legge 11 del 2005. Tale legge, susseguentemente modificata, ancora non è di fatto entrata in funzione. Al Dipartimento delle Politiche Comunitarie non esiste nessun luogo dove siano raccolti i dati relativi ai gruppi di lavoro esistenti, ai lavori in corso e alle possibilità di coordinare la posizione italiana tra i vari gruppi in modo da attivare una negoziazione multi-tavolo.

A Bruxelles lo Stato più influente non è la Germania ma la Francia, subito seguita dalla Danimarca. La Francia e la Danimarca hanno infatti i miglior meccanismi di coordinamento della presenza dei loro funzionari nei gruppi di lavoro di Bruxelles. La Francia ha in generale una capacità di organizzare la sua presenza nei vari gruppi di lavoro non solo Ue ma ance Onu, Osce etc. Attraverso questa capacità la tecnologia francese risulta spesso privilegiata dagli standards internazionali adottati.

Per farsi sentire a Bruxelles non bisogna presentarsi come degli squinternati parà nelle sedi politiche, ma bisogna mandare dei funzionari competenti nei gruppi di lavoro, anche nel caso si dovesse discutere della revisione dei trattati. Rammento che, nella fasi di preparazione dei due trattati di Maastricht (allora ero distaccato allo European Institute of Public Administration che ha appunto sede a Maastricht) i lavori venivano seguiti per l’Italia da un eroico funzionario della Farnesina (il Ministro Nigido), che poteva contare su 4 o 5 cinque collaboratori, che dovevano confrontarsi con le delegazioni di esperti degli altri Stati composte ciascuna da centinaia di esperti.

Qui noi scontiamo un grosso gap culturale. Non crediamo nella competenza e nella professionalità e pensiamo che il capo politico (ministro, assessore etc.) possa e debba decidere tutto in prima persona contando sulla fedeltà dei propri collaboratori e disdegnando l’affidabilità dei competenti.

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